L'insostenibile lentezza del treno

Da Phnom Penh a Battambang, Cambogia: 274 chilometri di ferrovia, un percorso di circa 14 ore seguito da uomini, donne, vecchi, bambini per i quali la globalizzazione è un mistero, troppo poveri anche per i bus.
Il treno è una carcassa, un rottame mobile che oscilla come un battello, dove tutto sembra marcire: il legno e il ferro dei vagoni come la carne, i denti dei passeggeri, i rifiuti sul pavimento accumulati nel tempo, ormai sedimenti. E dove tutto ciò diviene una specie di nuovo ordine che riflette l’economia, la società, la natura di un Tropico ancora Triste. Il treno è lo specchio della realtà che scorre oltre le orbite vuote dei finestrini: gli slum di Phnom Penh, le baracche dei villaggi.
Un viaggio del genere non è un modo per entrare in contatto con questa realtà. Scendi e ti gira la testa, sei umido, sporco, eppure hai condiviso solo un giorno della loro esistenza. Per noi c’è sempre un ritorno, un punto d’arrivo diverso. Per loro il viaggio non ha fine: prosegue interminabile nella vita in una capanna in mezzo a una risaia deserta, di fronte a una ferrovia che passa una volta la settimana.
All’apparenza è un’occasione per riflettere su se stessi. Ma i pensieri più profondi, poco a poco, si dissolvono nella ricerca di una posizione più comoda, nella necessità di espletare una funzione fisiologica, di ripararsi dal sole, dal caldo o dall’acqua del diluvio improvviso che inonda il vagone e ti fa comprendere perché tutto imputridisca. Un viaggio del genere dovrebbe indurre a riflessioni sul tempo, sui diversi modi di viverlo e seguirlo. A riconsiderare la nostra fretta e la nostra insofferenza rispetto al monacale atteggiamento degli orientali. Dovrebbe risintonizzarci sui ritmi circadiani perduti. Potrebbe innescare una meditazione sul karma, il destino o il caso, comunque si voglia chiamare la fortuna o la sfortuna di nascere in un luogo o in un altro, nonchè sulla relatività di questo fattore in funzione delle diverse priorità esistenziali.
Un viaggio così, invece, nella sua insostenibile lentezza, è un detonatore di dubbi. Ci mette di fronte all’indeterminatezza delle definizioni che siamo soliti dare al viaggio e al viaggiare, nel confronto con una realtà che non è mistica ma solo straziante.
Alla fine quel viaggio diviene solo un’altra storia da raccontare. L’ennesima storia che comincia con “Che ci faccio qui?”.

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