I Bassifondi dell'Anima

A una decina di chilometri da Chiang Mai, la seconda città della Thailandia, nel nord, è stato appena aperto il primo monastero benedettino del paese. Ci vivono cinque monaci, tutti vietnamiti. Leggo la notizia sul sito AsiaNews. L’agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere precisa che è “un primo, concreto gesto di ‘nuova evangelizzazione’, nel senso che è messa al primo posto non tanto un’opera educativa o di sostegno sociale, quanto ciò che rappresenta il fondamento anche della religione buddista, ossia la vita monastica e contemplativa”.
E’ l’ennesimo caso di sincronicità: eventi connessi senza un rapporto di causa-effetto: “coincidenze significative” le definiva Jung. Sto lavorando a un racconto su un “monaco della foresta” birmano. Che a sua volta segue l’incontro con un altro monaco thailandese. Sembra proprio che la storia continui a Chiang Mai.
Cerco subito di contattare il monastero. E’ meno facile di quel che pensi, ma alla fine ci riesco e pochi giorni dopo sono là. Si trova in una zona nota come Villa Farang, dove i farang, gli stranieri, che hanno sposato una thai costruiscono le loro villette. E’ sul terreno di una vecchia piantagione di manghi, banani, fichi, che ancora fanno da sfondo, danno ombra e frutti. Della piantagione è rimasto anche un piccolo stagno popolato da pesci gatto, due serre che ospitano il pollaio e un capannone che serviva da alloggio e cucina per i contadini ed è utilizzato come cucina e mensa. «Così gli odori di cibo restano qua» spiega padre Nicolà, l’unico dei quattro monaci che parla un po’ d’inglese.
Il monastero vero e proprio è un edificio bianco appena costruito. Ci sono dieci celle per i monaci, otto stanze di foresteria, locali di servizio, una sala riunione e una cappella. Alloggio vicino alla cappella, in una stanza luminosa, confortevole, con un bagno privato con water e doccia. Dalla finestra vedo il filare di altissimi bambù che circonda il convento come una cortina verde.
I monaci sono gentili, sorridenti. Secondo la Regola di San Benedetto, “Ora et Labora”, alternano momenti di preghiera e lavoro dedicandosi alla cura delle piante, alle faccende quotidiane, al pollaio.
Insomma, quel monastero è un bel posto, sereno.
P1010037
E allora perché non sto bene? Perché me ne vado dopo pochi giorni?
Non è per gli orari. La sveglia è alle quattro per la prima preghiera, ma è l’ora più fresca e poco più tardi posso dedicarmi a qualche esercizio fisico.
Non è per il cibo. Al contrario dei monaci buddhisti che si limitano al pasto di mezzogiorno, qui la giornata prevede prima colazione, pranzo e cena. Ed è tutto buono – spaghetti a parte, lo devo confessare. Probabilmente perché si prendono cura di me, vanno ogni giorno al mercato per acquistare qualcosa di speciale.
P1010020
Non è per i lunghi momenti di preghiere che scandiscono la giornata secondo la canonica liturgia delle ore. Né perché sono recitate in vietnamita. Anzi: accompagnato dalle tonalità altalenanti di quelle preghiere riesco a concentrarmi in meditazione come non mi accade spesso.
Non è per i tempi vuoti tra pasti e preghiera trascorsi in solitudine. Passeggio nei dintorni, fotografo i bambù, parlo con un geko, leggo, scrivo.
P1000521P1010046
Il fatto è che mi manca qualcosa che alimenti la mia irrequietezza. Forse mi manca proprio il disagio avvertito tra le montagne dello Shan o al confine con il Laos nei ritiri dei “monaci della foresta”. Quelle situazioni che mi danno un senso di totale estraniazione. Forse il mio è un disagio esistenziale. Tanto più quando scopro che, secondo la Regola di San Benedetto, i monaci peggiori sono quelli “detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all'altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri, sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola”.
Non comprendo il nesso tra il girovagare e il vizio. San Benedetto ha per i monaci girovaghi lo stesso disprezzo che i samurai nutrivano per i ronin, i samurai decaduti, senza più padrone. In un modo o nell’altro tutto si riconduce sempre alla contrapposizione tra principio d’autorità ed etica individuale.
Personalmente sono sempre stato affascinato dai guerrieri erranti. Come dalla loro incarnazione monastica, gli Unsui della tradizione buddhista, che passavano da un tempio all’altro cercando un Maestro. Il loro nome significa “nuvole e acqua”, rifacendosi a un poema cinese che recita: “Vagare come nuvole e scorrere come l'acqua". Senza contare che uno dei più grandi monaci erranti è proprio un mistico cristiano, il trappista Thomas Merton. Scrive in una delle Preghiere:
“Io, Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando.
Non vedo la strada che mi sta davanti.
Non posso sapere con certezza dove andrò a finire.
Secondo verità, non conosco neppure me stesso
e il fatto che penso di seguire la tua volontà non significa che lo stia davvero facendo…”.
Forse, però, la causa del mio disagio è nel ripetersi di situazioni che rischiano di farmi perdere la strada, un po’ come in questa storia.
Forse, alla fine, sto facendo troppi giri nei bassifondi dell’anima. E’ tempo di tornare in quelli veri.
|