Processi

«La nozione di libertà individuale, di leggi, di tribunali era abolita». Lo ha dichiarato Kaing Guek Eav, alias Duch, il responsabile del centro di detenzione e tortura dei khmer rossi, che tra il 1975 e il 1979 materializzarono in Cambogia l’inferno terrestre. P1020050
Kaing Guek Eav, alias Duch, durante il processo
Dopo trent’anni Duch è il primo dei khmer rossi a essere giudicato da un tribunale internazionale per crimini contro l’umanità. Il processo, ripreso oggi a Phnom Penh, è molto discusso. Soprattutto perché esclude dal giudizio gli anni successivi al 1979, quando la Cambogia fu invasa dai Vietnamiti. Dopo di allora e sino al 1998, con la resa dell’ultimo bastione dei khmer rouge, i crimini contro l’umanità continuarono. Ma almeno questo processo c’è, e può essere un primo passo per altri giudizi storici. Quasi nello stesso momento in cui Duch rispondeva alla corte di Phnom Penh, a Rangoon iniziava il processo di Aung San Suu Kyi. Questo, invece, senza un perché. Se non la paranoia dei generali della giunta militare birmana. I mostri continuano a riprodursi e la storia si ripete. Trent’anni fa, per la logica della guerra fredda, l’Occidente continuò a ignorare i crimini dei khmer rossi. Oggi, in nome dei nuovi equilibri planetari, si limita a protestare contro l’arresto di San Suu Kyi e ignora le altre migliaia di detenuti politici. Forse tra trent’anni assisteremo a un processo internazionale in cui qualche esponente della giunta dichiarerà, come Dutch, che la libertà era abolita. Ma probabilmente nessuno comparirà alla sbarra come complice.
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