La Logica e il Pugnale

“Si occupava a quel tempo della traduzione in sanscrito di alcuni testi di logica cinese. Camminava per la stanza col testo cinese in mano e traduceva ogni frase a voce alta. Quando non riusciva ad azzeccare la parola esatta, lanciava contro la porta il pugnale con cui giocava. I suoi domestici credevano che invocasse gli spiriti e lo abbandonavano uno dopo l’altro…”
Così Mircea Eliade ( 1907 –1986), storico delle religioni rumeno, di straordinaria erudizione e grande viaggiatore, descrive un italiano che, oltre a cavarsela benissimo “in tutte le lingue”, era “pure bello e seducente”: “portava lo smoking con rara eleganza, benché girasse sempre con un manoscritto nella tasca posteriore”. Quell’uomo era Giuseppe Tucci (1894-1984), il più grande orientalista italiano del Novecento, tra i massimi tibetologi a livello internazionale, scrittore, archeologo, antropologo, esploratore. Un uomo cui si adatta la descrizione di Leone l’Africano, il romanzo del libanese Amin Maaluf sulla vita di un esploratore arabo: “Sono figlio del cammino, la carovana è la mia casa e la mia vita è la più sorprendente avventura”.
Il problema è questo: l’avventura. Per Tucci l’avventura corrispondeva alla definizione del Tommaseo: “avvenimento, per lo più lieto o almeno che ha dello straordinario e del singolare”. Ma è per l’avventura che in Italia il ricordo di Tucci è andato sparendo: sembra non faccia parte dello Spirito nazionale o se ne veda solo il lato oscuro. Ricordare Tucci e riscoprire le sue lezioni, invece, sarebbe utile al paese per ricollocarsi in questo nuovo “Secolo Asiatico”. Evitando errori: dall’Afghanistan alla Cina.
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