La boxe birmana

«Da quando faccio l’allenatore ci sono stati cinque morti»
«Da quando fai l’allenatore?»
«Da tre anni».
U Kyaw Win fa l’allenatore al Myanma Traditional Boxing Club, una baracca adattata a palestra alla periferia di Yangon, la capitale del Myanmar, il paese che era conosciuto come Birmania. Se si calcola che gli incontri si svolgono una volta al mese, che non si disputano durante la stagione delle piogge, da maggio a ottobre, e che molti combattenti abbandonano per le ferite dopo il primo incontro, si ha un’idea della violenza della myanma let-hwei, la boxe birmana.
Molto simile alla più famosa muay thai, la boxe thailandese, come quella risale a circa 2300 anni fa, all’epoca delle migrazioni verso sud dei popoli provenienti dal sud della Cina. Costretti ad affrontare etnie ostili sul loro cammino, elaborarono una forma di combattimento che utilizzava come mezzo d’offesa e difesa ogni parte del corpo: i piedi, i denti, i pugni, le ginocchia, i gomiti, la testa. Di generazione in generazione la muay thai fu elaborata e modificata e oggi ha perduto le componenti estreme per enfatizzare gli aspetti sportivi. Quella birmana, invece, ha mantenuto molte delle caratteristiche tribali, feroci. Si combatte a mani nude e sono ammessi quasi tutti i colpi, su quasi tutti i bersagli, a eccezione di occhi e testicoli. Si può usare la testa e si può sferrare un calcio volante al collo. I colpi più violenti e pericolosi sono quelli di ginocchio al viso, afferrando l’avversario alla nuca, e quelli di gomito alla gola, in faccia o sulle vertebre cervicali superiori. I pugni sono considerati la mossa meno efficace, mentre i calci alle gambe sono utilizzati soprattutto per fiaccare la resistenza dell’avversario. “Un combattente che non sta in piedi non combatte più” dicono.
La maggior parte degli incontri si svolge durante le paya pwe, le feste delle pagode, su un ring improvvisato di terra battuta. Non c’è limite di tempo, non si fanno distinzioni di peso ed età e spesso gli avversari si sfidano per risolvere questioni personali. Non è prevista assistenza medica, ma c’è sempre un sacerdote dei Nat, gli Spiriti che sovrintendono a ogni attività umana e manifestazione della natura. Più codificati i combattimenti nazionali, specie quelli nel parco attorno al Kan Daw Gyi, il lago di Yangon, all’ombra della pagoda Shwedagon. Si combatte su un ring quadrato di 5.8 metri per 5.5. L’incontro è suddiviso in 5 round da 3 minuti ed entro i primi 4 si può chiedere una pausa. I pugili devono essere più o meno della stessa categoria e c’è qualcuno in grado di prestare i primi soccorsi.
I combattimenti si concludono quasi sempre alla pari o per ko. Anche quelli che, secondo gli regole occidentali o della muay thai, vedrebbero assegnata una vittoria ai punti.
«Non importa se ne prendi tante. Quello che conta è il coraggio, la resistenza, la capacità di sopportare il dolore» spiega U Kyaw Win. Al contrario «chi ha paura e sfugge al combattimento, dopo tre richiami è dichiarato sconfitto».
Il coraggio e il dolore rappresentano anche l’unica possibilità di guadagno. Non ci sono borse in palio, i pugili devono conquistarsi le offerte degli spettatori, che così premiano i migliori e incoraggiano l’uomo su cui hanno puntato. E’ per dimostrare indifferenza al dolore e coraggio che molti sfidano l’avversario avanzando a mani aperte, sollevando le braccia per offrirsi ai colpi. E’ per richiedere la forza di superare il dolore e affrontare i colpi, che si sono tatuati le gambe e il petto con formule propiziatorie e che prima dell’incontro rendono omaggio a Khun Tho e Khun Co, i Nat della myanma let-hwei.

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