La Sindrome di Stoccolma

Giovedì 23 agosto 1973 un uomo entrò nella sede della Kreditbanken bank di Stoccolma. Sparò una raffica sul soffitto e gridò: «La festa comincia. Tutti giù per terra». Non era una rapina: chiedeva tre milioni di corone svedesi e la liberazione dal carcere d’alta sicurezza di un suo compagno di malavita.
La festa continuò per sei giorni. Si concluse con l’arresto dell’uomo e la liberazione dei quattro ostaggi. Ma soprattutto con la definizione di una nuova psicopatologia: la “Sindrome di Stoccolma”, quella forma di comprensione, di dipendenza emotiva, che le vittime di un sequestro possono manifestare nei confronti del sequestratore.
L’uomo che ha dato origine alla Sindrome di Stoccolma si chiama Jan-Erik Olsson, “Janne”. Sta per compiere settant’anni e vive in Thailandia, nel villaggio d’origine della sua ultima moglie, Phian, conosciuta in Svezia. In realtà non è un villaggio, è una distesa di risaie con capanne e casupole sparse quasi al confine col Laos, nell’estremo orientale dell’Isaan, il nord-est del paese, la regione più povera. Olsson aveva comperato terreni, costruito una grande casa, aperto un minimarket. Aveva fatto fortuna, era un’autorità locale. Poi la fortuna è girata: il minimarket sta per fallire, schiacciato dalla concorrenza dei nuovi grandi centri commerciali che aprono anche là. Molti terreni li ha dati in uso ai parenti della moglie. La maggior parte li ha venduti. Ha venduto anche l’auto. Quelli che gli restano rendono meno di 50 euro d’affitto il mese. E il governo svedese gli ha decurtato la pensione.
«Non mi hanno dimenticato» dice, allargando le grosse braccia sconsolato. Adesso spera di poter guadagnare qualcosa con il libro che ha scritto (Stockolm-Syndromet, per ora solo in svedese), col film che dovrebbero farne, con le conferenze che dovrebbe tenere nelle scuole svedesi.
Intanto, appena incontra un occidentale, un farang, come li chiamano in Thailandia, si sfoga a parlare, a raccontare, a ricordare. Racconta la sua storia e storie di mala, del codice dei ladri, di una Beretta comperata in Italia, di una bellissima donna incontrata in via Prè a Genova, di viaggi attraverso le frontiere di un’Europa in piena guerra fredda. Sembra che quel periodo resti il mito della sua vita. Come una guerra per chi l’ha vissuta.
Sono stato suo ospite per un giorno. Ho dormito sopra le 200 bottiglie di whisky che aveva comperato per il minimarket e non ha voluto lasciare a chi l’ha affittato. Mi sono addormentato sentendo la moglie che ogni sera prega per un’ora e mezza di fronte all’altarino nel soggiorno e mi sono svegliato alle sei del mattino mentre lei si avviava al tempio per pregare ancora.
Andando in giro, mangiando, passeggiando, bevendo birra seduti nel piccolo padiglione di fronte a casa sua, Janne ha parlato sempre. Delle alterne fortune e sfortune, dei figli, degli amori, degli inverni svedesi e della stagione secca in Isaan. Del suo essere buddhista, degli amuleti che gli ha dato un venerabile monaco e che pendono sul petto e lo stomaco dilatato appesi a una catena d’oro.
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A volte si è è commosso, ogni tanto ha avuto un piccolo scatto, spesso ha riso. Ricordando certe cose, soprattutto parlando dei figli, gli venivano i brividi e si passava le mani sugli avambracci. Sembrava sincero. Non ha rimpianti. Non chiede scusa. «A che serve?». Preferisce aiutare la gente di questa povera zona. Ha anche offerto una grande statua del Buddha per un piccolo monastero.
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Il giorno dopo la mia partenza mi ha telefonato per dirmi che avevo lasciato le sigarette a casa sua. «Meglio così - ha detto - fanno male».
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