The God and the Gun

«I have two partners: the God and the Gun». Parola di Franco Tito, capitano del barangay, il villaggio, di Diwalwal. Per confermare le sue parole prima alza gli occhi al cielo, poi estrae l’automatica con caricatore da 11 colpi che porta sempre al fianco.
Il territorio del barangay si estende per 729 ettari sul fianco del monte Diwata, nella Compostela Valley, sud dell’isola di Mindanao. E’ in questa montagna che si trova il più grande deposito d’oro delle Filippine. Forse uno dei più grandi al mondo. La zona più ricca, a quanto pare, è concentrata in quei 729 ettari. Ci vivono oltre 40.000 persone. È un agglomerato di capanne, spacci, bordelli, mercati, sparso sui fianchi della montagna, intersecato da strade di pietre e fango, colate tra le immense felci della foresta come fossero un fiume di legno, mattoni, metallo. Come fossero anch’esse i “destino”, i rami delle small scale mines, le piccole miniere. Queste a loro volta s’intrecciano sotto la montagna in cunicoli dove gli uomini strisciano come serpenti, strappando tonnellate di pietra che saranno frantumate per estrarne circa 20 grammi d’oro a tonnellata. Diwalwal è un formicaio. Negli anni ‘80, dopo la scoperta dell’oro, era il posto più pericoloso delle Filippine, uno dei più pericolosi al mondo. Sparavano raffiche di M16 anche per farsi luce. Poi è arrivato Franco Tito ed è riuscito a mettere ordine. Soprattutto perché ha trovato un nemico comune: le multinazionali che vorrebbero trasformare Diwalwal in un’immensa miniera a cielo aperto. Spazzando via la montagna, la foresta e quello che per gli uomini come Franco è diventato un luogo dove rifarsi una vita. Anche rischiandola ogni giorno nel loro “destino”.
La loro è una delle tante storie che in questo momento sembrano non avere un perché. Sono troppo esterne al nostro mondo. Invece possono servirci a riflettere su quanto siano relativi i nostri valori, sulle infinite sfumature tra giusto e ingiusto.
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