La giustizia va servita fredda ?

Sono passati trent’anni, un mese e qualche giorno da quando le truppe vietnamite entrarono a Phnom Penh, il 9 gennaio 1979, e posero fine a “quei 3 anni, 8 mesi, 20 giorni” iniziati nell’aprile 1975, quando in Cambogia si materializzò l’inferno terrestre dei khmer rossi.
Gli ultimi demoni di quel periodo saranno giudicati in un processo che inizia il 17 febbraio con le udienze preliminari della Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (
ECCC). Sotto il dominio dei khmer rossi, in quella che divenne la Repubblica Democratica di Kampuchea, si stima siano morti un milione e mezzo di cambogiani su una popolazione di sette milioni. Molti furono torturati e uccisi. Molti di più morirono di fame, fatica e malattie nei campi di lavoro dove furono deportati come schiavi per realizzare l’utopia di purificazione comunista e del ritorno alle origini contadine sognata dal Saloth Sar, meglio conosciuto come Pol Pot. “I diritti individuali non furono sacrificati per il bene collettivo, ma furono aboliti in quanto tali. Ogni espressione dell’individualità umana fu condannata in sé e per sé. La coscienza individuale venne sistematicamente demolita” scrive lo storico Philip Short nel saggio Pol Pot.
Da allora la Cambogia ha vissuto altri vent’anni di guerra civile, ultima vittima della guerra fredda e della folle logica dei blocchi, per cui gli Stati Uniti sostenevano indirettamente gli ultimi khmer rossi, asserragliati nei loro santuari nel nord del paese in funzione anti-vietnamita. Per i troppi scheletri, reali e simbolici, disseminati nel paese come le mine, ci sono voluti altri dieci anni di battaglie politiche e finanziarie per arrivare al giudizio, che vede pochi e vecchi khmer rossi alla sbarra.
Il principale imputato è Kaing Guek Eav, alias Duch, ex resposabile del Tuol Sleng la scuola che divenne la prigione e il centro d’interrogatori dell’S21, il servizio di sicurezza dell’Angka, “l’organizzazione”. In un filmato girato dai vietnamiti 3 giorni dopo il loro arrivo si vedono ancora i cadaveri nelle sale di tortura.
Dobbiamo confrontarci con quegl’incubi anche o proprio perché sono passati trent’anni. E il tempo rende più forte la tentazione o la possibilità di negare.
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