Nessuno li vuole. A parte i trafficanti d’uomini

I Rohingya sono gli unwanted, gli indesiderati del sud-est asiatico. Sono anche gli ignoti. Sono una minoranza etnica di religione musulmana stanziata nella regione birmana dell’Arakan, sul Golfo del Bengala. Per l’autocratica giunta birmana non hanno diritto di nazionalità. In nome del mahan lumyogyi naingnngan, di una nazione monolitica, una specie di reich birmano, i rohingyas sono perseguitati, discriminati, schiavizzati. Condannati a vivere in un ciclo di povertà, repressione, fuga, cattura e sfruttamento.
La fuga è verso il vicino Bangla Desh, in cerca di solidarietà etnica e religiosa. Ma solo i più fortunati riescono a ottenere lo status di rifugiati. La maggioranza sopravvive attorno ai campi profughi. Molti si consumano facendo i conducenti di risciò nella città di Cox Bazar.
E così, tra dicembre e marzo, quando il monsone invernale porta bel tempo e calma le acque del mar delle Andamane, i Rohingyas riprendono la fuga. S’imbarcano su battelli sgangherati cercando di raggiungere la Thailandia, la Malaysia o addirittura l’Indonesia. Scompaiono in mare a centinaia, muoiono di fame, di sete, divorati dagli squali.
In questo periodo se ne parla, almeno nei giornali dell’area, perché la marina thai è stata accusata di aver ricacciato in mare un migliaio di boat people rohingyas, abbandonandoli al loro destino con due sacchi di riso e due galloni d’acqua per barca. Di cinquecento di loro non si hanno più notizie. Altri sono detenuti in attesa d’essere rimpatriati. Secondo alcuni osservatori la Thailandia vuole evitare che le sue coste orientali siano invase da flussi sempre maggiori di profughi dalla Birmania e dal Bangla Desh. Senza contare che alcuni Rohingyas potrebbero essere reclutati dai movimenti islamici attivi nell’estremo sud del paese. Per qualcuno il blocco potrebbe essere una fortuna. L’ingresso di rifugiati clandestini molto spesso è organizzato dai trafficanti di uomini. Sono gli unici a volere i Rohingyas.
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