Tropical Malady

«A mangiare la zuppa con una testa di pesce ti passa la fame ma non ti nutri. È una sottile differenza che ci sfugge». A rilevare la differenza è un espatriato che vive in Cambogia da quasi trent’anni. E ci vive, per sua libera scelta, come un cambogiano. Quell’uomo è all’ultimo stadio della Tropical Malady. Non è una malattia tropicale come la malaria o una qualunque tra le patologie che possono colpire in un clima tropicale. È una sindrome psicofisica che si trasmette per contagio con un altrove dove non tutti possono nutrirsi a sufficienza e c’è chi muore di fame, popolato da rifugiati, schiavi e trafficanti d’uomini, vittime e signori della guerra. Dove ogni giorno si prende coscienza delle casualità di nascita, che qui appaiono come processi karmici. Tropical Malady, come nel film del thailandese Apichatpong Weerasethakul, deriva dall’impressione inquietante di trovarsi in bilico fra due mondi. Un corto circuito in cui sia i mostri sia i ricordi divengono reali e gli uni sembrano derivare dagli altri. E’ una malattia che si cronicizza, che ti colpisce con ciclici attacchi, improvvisi e inaspettati. Si manifesta come i postumi della malaria: depressione, malinconia, stanchezza. In quei momenti vorresti scappare, tornare là dove le stagioni si susseguono, dove ci si nutre di cibo e di certezze. Ma forse è meglio imparare a convivere con la malattia, lasciarla metabolizzare in ciò che Gregory Bateson chiamava l’ecologia della mente. Come accade nel film: addentrandosi sempre più profondamente nella giungla, s’impara un’altra lingua per parlare agli Spiriti e si raggiunge un altro livello di consapevolezza

In attesa di guarigione o Illuminazione...
Di trafficanti e rifugiati ne ho già piena la vita…


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