Occupy Bangkok

Mi chiedo quale dea, ninfa o donna mortale rappresentino le statue di marmo a seno nudo che affiancano la scala all’entrata laterale della Thaikufah, il palazzo del governo di Bangkok. E’ un edificio costruito agli inizi del secolo scorso da due architetti italiani. Sul prato antistante la facciata in stile gotico veneziano c’è una folla festante.
Seduto su un seggiolino di plastica blu sotto quelle statue, accanto a un soldato con un garofano bianco nella cintura, penso quanto sia assurdo soffermarsi sui dettagli architettonici in un momento del genere. Tanto quanto lo è tutta questa storia.
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«Oggi tutti sono felici» dice un uomo che si qualifica come ufficiale della polizia di Bangkok. Osserva la scena con un sorriso che sembra più ironico che felice.
Pochi minuti prima sono stati rimossi i blocchi di cemento che circondavano il palazzo del governo e il quartier generale della polizia. Un fiume di manifestanti scorre tra due ali di poliziotti. Tutti sorridono, si fanno il segno del wai, giungendo le mani sul viso, fotografano e si fotografano con i telefonini.
«E domani?»
«Domani…“mai pen rai”» risponde con lo stesso sorriso, che accentua il senso di quell’espressione, “mai pen rai”, tra l’ottimista, il fatalista e il rassegnato, che significa non preoccuparti, non pensarci.
«Che cosa spero? La pace» dice un giovane ufficiale della polizia di Bangkok
«Non sarà facile»
«Appunto: è una speranza».

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Solo la sera prima c’era poco da sperare. Una donna indica il cielo di Bangkok e dice che la salvezza può giungere solo da là. Il giovane che traduce i discorsi di quella signora, dice che non c’è da farci caso. «Dobbiamo fare qualcosa noi per creare un nuovo paese. Questo può essere un modo pericoloso, ma non c’è alternativa». Denuncia corruzione, inefficienze. «La mia è una famiglia povera. Sono riuscito a studiare, a trovare un lavoro. Ma non riesco a vedere oltre» dice in un perfetto inglese.
La signora che attende la soluzione dal cielo – e va precisato che il Cielo in Thailandia molto spesso è un’espressione usata per indicare il palazzo reale – e il ragazzo che lavora come programmatore in una società di software sono due volti della protesta iniziata a fine novembre e che ai primi di dicembre si è infiammata in un’escalation sempre più violenta e pericolosa.
Mentre la signora e il giovane cercano di dimostrare in modi diversi che la democrazia è un’opinione, il cielo di Bangkok è solcato dai lacrimogeni e dai proiettili di gomma sparati dalla polizia e dai sanpietrini, le biglie d’acciaio e le molotov dei dimostranti che si fronteggiano sulle due rive di un khlong, un canale, che delimita il palazzo del governo.
Mentre gli scontri continuano cerco un po’ di tranquillità all’interno di un monastero, il Wat Somanas Rajavaravihara. Mentre scrivo sotto un albero bodhi sento colpi che non suonano come quelli dei lacrimogeni.

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Sono arrivato al palazzo del governo in compagnia di un gentile signore che afferma di essere un docente universitario di scienze politiche. Gli chiedo di spiegarmi quali possono essere gli sviluppi di questa crisi. Dice che possiamo chiacchierare mentre passeggiamo nell’area che è stata appena “liberata”. Ma prima vuole fermarsi di fronte alla statua di Rama V, il re venerato dai thailandesi per il ruolo che ebbe nel mantenere l'indipendenza del paese nel periodo in cui tutti gli altri stati asiatici divennero colonie delle potenze europee e per il contributo che diede alla modernizzazione del Siam. S’inginocchia e prega per qualche istante. «Lui ci proteggerà. Proteggerà anche te» mi dice poi. Secondo il professore siamo a una svolta. Se il primo ministro se ne va, un gruppo di saggi chiederà al re (Rama IX, Bhumipol Adulyadej) di indicare una personalità al di sopra delle parti per formare un nuovo governo. Che rimarrà in carica per qualche anno. Poi, quando il paese sarà pronto, verranno indette altre elezioni. Quando ci salutiamo il professore mi invita a passare a trovarlo. Nel suo negozio di oggetti tradizionali d’arredamento.

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Il giorno della speranza, in realtà, per alcuni è semplicemente una buona mossa tattica del governo. Per tutti, segna solo una tregua alla vigilia del compleanno del re, il 5 dicembre. L’origine della rivolta è stata la proposta del governo di un’amnistia per tutti quelli coinvolti nelle rivolte che si sono susseguite dal 2006. Amnistia che avrebbe cancellato anche le condanne (dopo un processo estremamente politicizzato) per corruzione, abuso di potere e lesa maestà dell’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di stato nel 2006 e rifugiato all’estero. Da allora, la Thailandia si è letteralmente divisa in due: i sostenitori di Thaksin, le cosiddette magliette rosse, i phrai, il popolo, le classi più povere, e i suoi oppositori, i gialli (dal colore della casa reale), rappresentanti dell’ammart, l’elite. Nel 2010 i rossi hanno occupato il centro di Bangkok innescando una rivolta che si è conclusa con 90 morti e un migliaio di feriti. Nelle elezioni del 2011 il partito dei rossi ha vinto le elezioni ed è stata eletta primo ministro la sorella dell’ex premier, Yingluck Shinawatra. Sembrò allora che, pur con molti vizi di forma, la Thailandia si fosse avviata alla normalizzazione. Era un’altra speranza.

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«Kanom, kanom» grida una signora in mezzo alla strada, invitando i manifestanti a servirsi dei “dolcetti” che sono lo snack preferito dei thai. La signora distribuisce anche bottiglie d’acqua e piccoli asciugamani – di quelli normalmente usati per rinfrescarsi, inumiditi e profumati – per pulirsi gli occhi irritati dai lacrimogeni. Le scene che si sono susseguite nei giorni delle manifestazioni ricordano quelle del 2010, durante la rivolta dei rossi. Ci sono i venditori ambulanti di magliette, trombette, fischietti, i carretti di cibo, le postazioni per i massaggi, i volontari di pronto soccorso. Anche la colonna sonora è uguale: un misto di discorsi propagandistici sottolineati da boati di folla e intercalati a musica popolare thai. Il tutto a volume altissimo (tanto che, questa volta, c’è stato chi ha provveduto a distribuire tappi per le orecchie). E ci sono le surreali differenze tra una parte e l’altra della città. Appena fuori la zona degli scontri la vita procede normalmente. Una sera, tornando a casa, sento improvvisamente dei colpi violenti. Penso siano passati ad armi più pesanti. Poi alzo gli occhi al cielo e vedo i fuochi d’artificio.

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Ma le differenze ci sono. Negli slogan, nei volti sulle magliette o nelle caricature. E’ cambiato solo il demone di turno, che nel 2010 era il primo ministro conservatore Abhisit Vejjajiva e oggi è Thaksin, in tutte le sue incarnazioni. E’ cambiato anche il giudizio su Berlusconi, che, dopo i calciatori è l’italiano più noto in Italia. Nel 2010 i rossi mi dicevano con orgoglio che Thaksin era come Berlusconi, ricco, amato e spiritoso. I manifestanti di oggi mi dicono che vogliono cacciare la sorella di Thaksin come noi abbiamo cacciato Berlusconi. «La Thailandia potrebbe essere un paese ricco e felice, se abbandonasse questa pulsione a una politica autodistruttiva» mi dice un amico thai. «Come italiano dovresti capirlo bene».
La differenza più profonda, tuttavia, riguarda proprio la speranza. Nel 2010 si sperava nelle elezioni. Oggi in qualcosa d’indeterminato. Suthep Thaugsuban, ex vice primo ministro nel governo Abhisit e leader del movimento d’opposizione vuole lo scioglimento del parlamento e la formazione di un consiglio di saggi per formare un “parlamento del popolo”. «Non riesco a capire che cosa voglia dire» ha dichiarato il politologo Pavin Chachavalpongpun. Probabilmente non lo capiscono bene anche i militari, che non sembrano disposti a un colpo di stato (dal 1932 ce ne sono già stati 18). Almeno non a sostegno del progetto di Suthep. Se interverranno, lo faranno quando potranno apparire come i salvatori del Regno anziché golpisti.

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«Vedi gialli qua attorno?» mi chiede un manifestante. In effetti le magliette gialle sono poche. Quasi tutti, come il mio interlocutore, ne indossano una nera. Ufficialmente in segno di lutto per la recente scomparsa del supremo patriarca buddhista. Probabilmente anche per segnare un distacco dai “gialli” in quanto rappresentanti di un’aristocrazia partecipe di un sistema che si vuole abbattere. Il nero, però, non si richiama al colore dell’estrema destra occidentale. Appare più intonato a quello del movimento di protesta internazionale Occupy, tanto che su molte magliette è raffigurata la maschera di Guy Fawkes, l’eroe di V per Vendetta (accanto al volto di Suthep). I gialli ci sono, indubbiamente, ma ormai rappresentano solo una delle anime del movimento d’opposizione. La maggior parte sono studenti, giovani che hanno twittato ogni istante delle manifestazioni, che vogliono cancellare un sistema corrotto e inefficiente (anche in questo caso si possono trovare molte analogie con l’Italia). Sostenitori di un’ideologia anticapitalista e non-consumista, di quell’economia sostenibile predicata da Sua Maestà Rama IX. Sulla loro linea i nascenti gruppi della cosiddetta “società civile”. Ci sono poi i supporter del Partito Democratico (analogo a quello italiano solo per la sua incapacità di vincere le elezioni), rappresentante della borghesia thai. Tutti disposti a barattare la democrazia con un regime di uomini onesti. E ancora: gli ultraconservatori realisti e gruppi d’integralisti buddhisti che invocano una purezza nazionalreligiosa che si contrappone alle contaminazioni animiste dei contadini dell’Isan, la regione più povera della Thailandia, spesso d’origine lao o cambogiana.
In un modo o nell’altro la Thailandia, che è stato il primo paese asiatico a sperimentare la modernizzazione (proprio durante il regno di Rama V), sembra divenuto punto di scontro tra i cosiddetti valori universali elaborati dalla filosofia politica occidentale e i valori asiatici teorizzati da Lee Kuan Yew, il demiurgo della città-stato di Singapore. Un conflitto che potrebbe facilmente contagiare i paesi vicini come il Myanmar, la Cambogia, il Laos, dissuadendoli dal procedere sulla via delle riforme politiche.
«Molti sono feccia» aggiunge un espatriato riferendosi ai manifestanti d’ogni colore che con le loro proteste danneggiano gli affari.

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«Temo che questa situazione possa far scivolare la Thailandia verso una guerra civile a bassa intensità» ha dichiarato Paul Chambers, ricercatore capo dell’Istituto di Studi sul sud-est asiatico dell’università di Chiang Mai. Il pericolo è reale proprio perché la divisione thailandese diviene sempre più profonda in termini culturali e sociali. C’è chi l’ha definita un “conflitto filosofico”. Intanto i rossi, che in questi giorni hanno un tenuto un profilo basso, sono pronti alla mobilitazione, chiamando a raccolta tutte le nuove leve formate nelle scuole di partito aperte in molti dei villaggi del nord e del nord-est.
Benedict Anderson, un esperto di sud-est asiatico alla Cornell University, ha citato Antonio Gramsci: “Quando il vecchio rifiuta di morire e il nuovo combatte per nascere appaiono i mostri”.

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Ho passato il tempo riordinando idee e appunti sotto il palazzo del governo. Molti manifestanti cominciano ad andar via. Mi avvio anch’io. Una ragazza raccoglie le bottiglie di plastica disseminate sulla strada che ieri sera era un campo di battaglia. Se ne sono consumate migliaia per bere e per pulirsi gli occhi dai lacrimogeni. Lei le venderà per qualche centesimo al chilo.

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