Le città dell'Apocalisse

Guerre, terrorismo, edifici saltati in aria e palazzi bombardati, tsunami, tornado, tifoni, terremoti, alluvioni: le “città traumatizzate” sono sempre più spesso protagoniste della cronaca quotidiana. Gli spazi urbani sono segnati dalle ferite e dalle cicatrici di questi disastri. Come possono essere compresi gli effetti del trauma in termini urbani? Che cosa può fare l’architettura per un pianeta in guerra con se stesso? Un nuovo saggio analizza le conseguenze dei traumi sulle città, sulle comunità e culture. Post Traumatic Urbanism - pubblicato nella serie Profiles dell’Architectural Design Magazine, a cura dell’University of Technology Sydney, realizzato da Adrian Lahoud, Charles Rice e Anthony Burke - esplora la risposta di architetti e urbanisti a questi eventi catastrofici.
post traumatic book cover
Per quanto l’intervento d’emergenza e la ricostruzione siano fattori essenziali, gli architetti devono comprendere in modo più profondo gli effetti del trauma sulle città e le popolazioni che le abitano. Devono restaurare e recuperare ciò che si è perduto o dovrebbero vedere le città post-trauma come uno spazio per nuove possibilità?
Il post-trauma non è più l'eccezione. E’ la condizione globale.

Nelle Storie trovate uno stralcio dell’introduzione di Adrian Lahoud, architetto, urbanista e ricercatore. E’ un breve testo, complesso, astratto. Ma è proprio nel distacco della freddezza scientifica che possiamo osservare gli effetti del trauma più lucidamente. La condizione è che osservare implichi un’azione conseguente.
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Questo non è un film

«Questo non è un film, questa è la realtà» dice Ashin Sopaka, monaco birmano. E’ vero: per noi la realtà birmana troppo spesso è un film, una notizia in tv.
Oggi quella realtà appare in un breve documentario realizzato dalla Burma Partnership in collaborazione con la Kestrel Media. Si intitola “This is Not Democracy”. Spiega perché i birmani non credono che le prossime elezioni siano un primo passo verso la democrazia, bensì un modo per rafforzare il regime militare sotto una facciata civile. Oltre la testimonianza di Ashin Sopaka presenta interviste con Naw Htoo Paw della Karen Women’s Organization e con U Win Hlaing, della National League for Democracy.
C’è da guardare e ascoltare. Ci sono scene molto poco piacevoli da vedere. Soprattutto se ricordiamo che questo non è un film. E’ realtà.

Burma's 2010 Election: This is NOT Democracy from Kestrel Media on Vimeo.

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The Toilet Man

«M’interesso del fondo dell’umanità, degli scarti umani» dice Jack ridendo. Ma non scherza: è vero, in tutti i sensi. Jack Sim, soprannominato The Toilet Man, è il fondatore della World Toilet Organisation, un’organizzazione non-profit focalizzata proprio su questo: le tecnologie, lo sviluppo, il design e tutto ciò che è collegato alle strutture igieniche là dove sono inefficienti o inesistenti. «La cosa più difficile, molto spesso, è rompere il tabù che circonda questo problema» dice Jack. «Spesso ci riesco dicendo: vuoi che gli altri vedano tua madre, o tua moglie o tua figlia mentre fa i suoi bisogni?».
Jack Sim
Jack Sim è stato uno dei protagonisti di un convegno che si è svolto a Singapore organizzato da Qi, un think-tank, un laboratorio, in cui studiano nuovi ecosistemi sociali, culturali, economici. Tutti rigorosamente sostenibili, ecologici, compatibili, equi, solidali. Vi hanno partecipato alcuni degli intellettuali più creativi che oggi operano in Asia. Ma quella di Jack è stata una delle relazioni più divertenti, interessanti e, soprattutto, illuminanti. Forse perché, anche per noi, quello della toilette – del cesso, scriviamolo – è un argomento tabù, imbarazzante. Forse perché non riusciamo a immaginare come si possa vivere senza un bagno. Non una doccia, un lavandino, una vasca. Senza un water, un cesso, appunto. Accade così, invece, a centinaia di milioni di persone che vivono negli slum e nelle aree rurali dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. A molti di quelli che gli economisti, in questo caso senza sottintesi e in forma ben più asettica, definiscono BOP, con un acronimo che significa Bottom of the Pyramid. Il più grande e povero gruppo socio-economico del pianeta. Circa 2 miliardi e mezzo di esseri umani (secondo le stime più ottimiste) che vivono con meno di 2 dollari e mezzo il giorno.
Certo, proprio in occasione del convegno Qi Global sono stati presentati molti progetti per combattere la povertà: da quello di IIX Asia (Impact Investment Exchange Asia), una Borsa che permette la raccolta di capitali a imprese con obiettivo sociale, a quello della rubanisation, ossia la creazione di un nuovo modo di vivere in città rurali, le ruban, centri autosufficienti dove gli individui lavorano connessi alla famiglia e alla società, i villaggi del prossimo secolo, dove ricreare i valori comunitari
In questa linea di progetti s’inserisce anche l’ultimo rapporto dell’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), secondo cui la ICT, ossia la Information and Communication Technology, può rivelarsi una formula per produrre ricchezza in paesi a basso livello di istruzione ed economia (per scaricare il rapporto completo clicca qui). Mettendo assieme ruban e ICT, ad esempio, si possono prevedere microimprese delocalizzate che utilizzano Internet.
Prima, però, bisogna poter vivere in maniera decente. Magari con l’aiuto di Jack, The Toilet Man.
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La ciotola è vuota

Molti la vedono piena. Anzi traboccante, una specie di vaso magico da cui attingere nuovi tesori. Sono gli analisti finanziari che studiano i mercati emergenti, i paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) e si spingono ancor oltre, tra mercati di frontiera come Thailandia, Filippine, Indonesia.
Per un non adepto le loro analisi suonano tanto esoteriche quanto attendibili. La ciotola asiatica sembra fonte di straordinarie ricchezze. Peccato che, nella maggior parte dei casi, la geopolitica sia considerata un elemento marginale. Ci si limita a segnalare rischi d’instabilità e corruzione. The Economist, in un recente editoriale, The Last Great Hope, avverte che i mercati emergenti possono rivelarsi la prossima bolla economica.
Ma non si delinea un quadro reale. Manca del tutto la visione antropologica. «L’immagine che abbiamo della Cina e di molti altri paesi è quella degli amministratori delegati e dei politici che volano a Shanghai e a Pechino e non si rendono conto di com’è la realtà più profonda» dice il professor Gordon Mathews del dipartimento di antropologia della The Chinese University of Hong Kong.
Lo stessa distonia culturale si manifesta nelle analisi politiche. E’ il caso, ad esempio, delle prossime elezioni birmane. Secondo David Mathieson, ricercatore dello Human Rights Watch, «Nella comunità europea si è creata la strana percezione che le elezioni rappresentino davvero un primo passo verso la democrazia». E’ accaduto perché «Gli eurocrati preferiscono andare a Rangoon e incontrare le elite emergenti, mentre ignorano le comunità etniche lungo i confini perché è troppo scomodo, complicato e fuori moda».
Ci vorrebbe una rivoluzione pari a quella del principio di indeterminazione, del teorema di incompletezza, che hanno annichilito le nostre certezze scientifiche. In un certo senso è ciò che ha fatto Nassim Nicholas Taleb, docente di scienze dell’incertezza, nel suo libro Il Cigno Nero. Secondo Taleb, noi agiamo come se fossimo in grado di prevedere gli eventi, continuiamo a concentrarci su ciò che è conosciuto. Il mondo, invece è dominato da ciò che è estremo, sconosciuto e molto improbabile: il Cigno Nero.
Le nuove analisi planetarie, insomma, esigono una visione più alta e sottile, che riesca a coniugare modelli economici, politici e filosofici. Una sorta di meta-analisi. Idea intuita qualche anno fa da Pietro Citati nel saggio “Le scintille di Dio”: “Un tempo, i saggi uomini politici si facevano accompagnare da esperti di teologia o erano essi stessi eccellenti teologi. Oggi la teologia è disprezzata o praticata da persone di quart’ordine. Per il bene dell’universo, sarebbe giusto che rifiorisse al più presto».
Se ciò accadesse, se la metafisica divenisse strumento di valutazione, ci accorgeremmo che la ciotola, molto spesso, è vuota.
Lo è per un miliardo di persone che soffrono di fame cronica, due terzi dei quali concentrati in Asia. Lo precisa un rapporto della Asia Society in collaborazione con l’International Rice Research Institute: Never an Empty Bowl.
Un’altra ricerca presentata dalla Asia Society e realizzata da Medici Senza Frontiere documenta la situazione di 195 milioni di bambini che soffrono di malnutrizione. Il video Terrifing Normalcy del documentarista Ron Haviv presenta la loro tragedia in Bangla Desh.

Certo, si tratta del Bangla Desh, paese che ancora nessun analista si azzarderebbe a definire economia emergente (sino a quando?). Ma scene del genere, spesso peggiori, ti si vomitano addosso in tutta l’area. Se solo esci da un grattacielo dei centri finanziari e ti avventuri nelle campagne, nei villaggi, negli slum che spesso si trovano ai piedi di quei grattacieli.
Scrisse Sze Ma Chien, storico cinese del I secolo a.C. : “Il mondo accorre dove chiama il denaro. Il mondo si precipita dov’è più forte il guadagno”.
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La tela del ragno

C’erano una volta i Signori della Droga degli stati Shan, territorio birmano incuneato tra Thailandia, Laos e Cina, là dove il terreno è propizio alla coltivazione dell’oppio. Alcuni di loro, come Khun Sa, avevano assunto una dimensione quasi epica. Apparivano personaggi da Cuore di Tenebra. Spesso si ergevano a paladini di una causa etnica. Giustificavano i loro traffici con la necessità di finanziare un esercito che difendesse il loro popolo dagli attacchi di quello birmano. Poi presero il sopravvento le rivalità tribali tra i diversi gruppi, che al tempo stesso si contendevano il mercato dell’oppio, dell’eroina e della ya baa, la droga pazza, la micidiale metanfetamina che ha inondato l’Asia e ne ha incrementato lo sviluppo, permettendo agli uomini di sottoporsi a ritmi di lavoro da cavallo (questo era il nome originario, ya ma, droga da cavalli, a significarne la straordinaria potenza). Ad approfittarne furono i birmani, che, in perfetto stile “divide et impera”, proposero una tregua ai diversi gruppi. Molti accettarono, pensando di potersi concentrare sui più diretti avversari e accrescere i profitti della droga. Come fecero gli ex tagliatori di teste Wa (di origine cinese), acerrimi nemici degli Shan (di ceppo etnico thai), che divennero, secondo un rapporto della Cia, il più grande esercito di produttori e distributori di droga del mondo. Ma poi il governo birmano alzò la posta, chiedendo alle milizie che avevano accettato la tregua di entrare a far parte della Border Guard Force, le guardie di frontiera, alle dirette dipendenze dell’esercito nazionale. Al loro rifiuto ripresero con maggior violenza gli attacchi contro gli stati ribelli, giustificandoli come lotta alla droga. «Stiamo combattendo per voi (gli occidentali). Per noi la droga non è un problema» ha dichiarato il colonnello Hla Min, portavoce dell’SPDC (lo State Peace and Development Council, nome ufficiale dell'organismo con cui governa il regime militare birmano).
Secondo un rapporto dell’agenzia stampa Shan, con questa manovra l’esercito non sta combattendo la produzione e il traffico di droga. Cerca di sostituire chi li controlla. Approfittando della pressione esercitata sui gruppi etnici, ha costituito milizie locali (se ne contano 400 gruppi solo negli stati Shan del nord). Le milizie dividono coi militari i profitti della droga e li aiutano nella lotta ai gruppi etnici armati. In cambio ottengono protezione, impunità e facilitazioni nel business. Molti dei loro comandanti sono stati addirittura candidati alle prossime elezioni nelle liste dell’Union Solidarity and Development Party, il partito con cui la giunta cerca di ricrearsi un’immagine democratica. Sono stati definiti i “signori della droga politicamente corretti”.
La storia documentata nel rapporto dello Shan Drug Watch è solo l’ultimo filo di un’infinita ragnatela intessuta da ragni di ogni specie: gruppi tribali, guerriglieri comunisti e anticomunisti, Cia, mafia, ex militanti del Kuomintang, il partito nazionalista cinese, indipendentisti etnici. E’ una trama, in realtà, che risale a migliaia d’anni fa. Se non fosse tragica per le vittime che provoca in tutto il mondo, potrebbe apparire affascinante. Così accade, perché storicizzata, nel saggio di Pierre Arnaud-Chouvy, del Centre national de la recherche scientifique francese, specialista in geopolitica della droga: Opium.
Oggi il ragno è l’esercito birmano: tramite le milizie locali cerca di controllare il territorio nazionale e, con la diffusione delle droghe tra i giovani delle etnie autonomiste, operare una forma sottile di genocidio. Ma forse, proprio alla luce della storia raccontata in Opium, in cui l’oppio appare quasi come un elemento alchemico che sfugge al volere di chi cerca di controllarlo, anche i futuri governanti birmani cadranno nella stessa rete.

Per scaricare il rapporto dello Shan Drug Watch clicca qui

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