Rovine e fantasmi della dolce vita khmer

«In certe vecchie case è meglio non entrare: ci sono i fantasmi». Così dice il colto e raffinato francese che studia le rovine delle ville di Kep, un villaggio sulla costa cambogiana chiuso tra colline coperte da foresta, spiagge orlate di palme e paludi. Le recinzioni non proteggono più nulla. Le mura più nuove e imbiancate circondano spazi vuoti, dove anche i ruderi sono stati demoliti per creare nuovi terreni immobiliari. Tra alte palme, fitti cespugli e canneti, appaiono geometrie inquietanti, slabbrate: una Angkor postmoderna, dove la vegetazione, le radici aeree, i ficus coprono e divorano i muri, incorniciano le orbite delle finestre, compongono disegni metafisici su pareti dove i verdi e i gialli delle muffe penetrano e chiazzano ciò che resta di pitture pastello: azzurri, ocra, qualche fucsia.

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Le tracce di colore, le forme latenti, i frammenti di piastrelle policrome, una scala sospesa nel vuoto come in un quadro metafisico fanno ancora intuire la ricerca architettonica di un tempo.

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Negli anni ’20 Kep era “La Perle de la Côte d’Agathe”, una delle località di soggiorno preferite dell’amministrazione coloniale francese. Dopo l’indipendenza, negli anni ’50 e ’60, il principe
Norodom Sianouk volle farne la Saint-Tropez del Sud-Est Asiatico, mondano ritrovo della nuova élite del Sangkum Reastr Niyum, la “Comunità Popolare Socialista”. Il movimento di Sihanouk combinava elementi di socialismo, nazionalismo, conservatorismo, buddismo e populismo, quasi un’anticipazione delle “dittature illuminate” dell’Asia contemporanea. Eclettismo culturale, come nel modernismo Sangkum della Nuova Architettura Khmer, combinazione dello stile definito all’epoca in Europa da Le Corbusier e della rielaborazione di antiche forme khmer, nel segno di un primitivo funzionalismo per adattarsi a clima e territorio. Ne era Maestro l’architetto cambogiano Vann Molyvann, autore dello stadio di Phnom Penh, che proprio nella provincia di Kep realizzò alcuni dei suoi progetti più interessanti. Altro protagonista di quel movimento era il francese Roger Colne, autore del casinò di Kep.
La Saint Tropez sul Golfo di Thailandia fu canonizzata in uno dei film prodotti, diretti e interpretati dal principe Sihanouk. Kep divenne la vetrina di una nuova Cambogia, colta, ricca, raffinata, apparentemente lontana dalla guerra in Indocina.
Il titolo di quel film,
Crepuscule, anticipa gli anni del buio. Nel marzo 1970 il generale Lon Nol, appoggiato dagli Stati Uniti, depone Sihanouk e la Cambogia entra nel Grande Gioco della guerra. Col risultato di rafforzare il movimento dei khmer rossi. Il 31 maggio di quell’anno l’architetto Colne, mentre viaggia nella provincia di Kep con un gruppo di giornalisti, è ucciso in un’imboscata dai seguaci di Pol Pot. I suoi resti non saranno mai identificati. In Cambogia si materializza l’inferno: la dittatura di Lon Nol, quei “3 anni, 8 mesi, 20 giorni” dell’orrore dei khmer rossi, l’invasione (o la liberazione) vietnamita, la guerra civile.
In quegli anni le ville di Kep sono al centro di combattimenti. In realtà, nonostante i segni di proiettili d’ogni calibro sui muri e i racconti, ormai recitati come copioni dalla gente del posto, gli scontri sono stati limitati. I khmer rossi non hanno distrutto le ville moderniste di Kep con la determinazione applicata alle coloniali. Forse perché quelle architetture dalle linee essenziali in cemento grigio potevano ricordare quelle dell’Unione Sovietica. Forse perché, inconsciamente, ne sentivano lo spirito khmer. Forse perché non le capivano. A ridurle come appaiono oggi è stata “la buona, vecchia tecnica della vampirizzazione”, dice il francese, che ne ha fatto oggetto di studio. Per la popolazione locale erano riserva di materiali d’ogni genere, soprattutto negli anni seguenti la caduta dei khmer rossi, quando la gente continuava a morire di stenti e qualunque cosa poteva fare la differenza tra la vita e la morte.
In quegli anni il casinò è stato prima trasformato in mercato, poi in stalla, poi in stalla e latrina per una microbidonville sorta tutt’attorno. Su quella che era la corniche e più all’interno si susseguono le rovine in un caotico groviglio. Ben più distinti i segni del presente: baracche addossate ai ruderi o sopra ciò che resta del pavimento di un salone d’ingresso, mucche che si abbeverano nelle pozze formate dalle cisterne d’acqua accanto a ciò che s’intuisce doveva essere una sala da bagno. Uno dei pochi palazzi ancora integri nella struttura è quello della madre di Sihanouk, la principessa Sisowath Kossamak Nearireath. Oggi è un’attrazione turistica. L’ingresso costa un dollaro, riscosso dal guardiano che ostenta una specie di divisa militare e racconta che il palazzo nel 1982 fu al centro di una battaglia tra vietnamiti e khmer rossi. Spesso ci s’incontra il signor Oeu, guida locale. Racconta che da bambino viveva nelle vicinanze e vedeva giocare i figli di Sianouk, senza osare avvicinarsi. Oltre le mura, la casa è sventrata: resta solo un’elegante e ardita scala elicoidale che sale al primo piano. Dal terrazzo si vede il lunghissimo molo di cemento dove la principessa madre s’imbarcava per le gite nelle isole al largo di Kep. La parte posteriore della casa è semidistrutta, della cucina resta solo un muro annerito dai fuochi accesi per cucinare: la funzione del luogo è la stessa, sono cambiati i modi e i mezzi.
«Sembra che questi palazzi stiano piangendo», dice il francese. È di questo dolore che si alimentano i fantasmi di coloro che abitavano quelle ville. Nel mondo magico khmer gli arb, i fantasmi, sono una presenza immanente alla natura. Si manifestano di notte, quando vanno in caccia d’esseri umani per succhiarne il sangue o divorarli. Nella loro metamorfosi in porta d’accesso a un mondo occulto, le rovine di Kep, come quelle di Angkor, divengono quella macchina spazio-temporale descritta dall’antropologo francese Marc Augé nel saggio
Rovine e Macerie.
Fanno intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia. Un tempo puro, non databile, assente dal nostro mondo d’immagini, simulacri e ricostruzioni, dal nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”.
Un tempo perduto che si ricrea parlandone e parlando del senso della vita in riva al mare, di fronte al
Knai Bang Chatt, boutique hotel edificato sulle rovine di una villa realizzata nei ’70 da un allievo di Le Corbusier. Non succede per il restauro, preciso, ma per l’idea che sottintende di lusso ed escapismo, dimensione mentale dove continuiamo a cercare rifugio.
«Se vuoi morire guardando il mare, allora guarda la foresta», dice il proprietario dell’albergo. A Kep è feroce la volontà di sfuggire ai fantasmi.