Una storia che non finisce mai


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Articolo scritto nel 2009 per Il Foglio. Foto di Andrea Pistolesi, dal reportage Rohingya refugees in Bangladesh

Cox Bazar, Bangladesh. Saugida ha venduto il figlio più piccolo, due mesi, per 5000 taka, 57 euro. Con quei soldi, lei e gli altri due figli sono riusciti a sopravvivere per sei mesi. Il marito faceva il pescatore, è morto in mare qualche anno fa. Morjia, 25 anni, ha venduto i suoi capelli per 500 taka. Il marito è malato. Lo ha fatto perché stavano morendo di fame. Scosta il velo che le copre il capo e mostra la testa rasata. Poi indica i fianchi per far vedere sin dove arrivavano i capelli. Per la stessa cifra, 500 taka, poco meno di sei euro, Amina, 25 anni, ha venduto la figlia di 23 giorni. Si è sposata cinque anni fa e poco dopo il marito se n’è andato a cercare lavoro. Guarda i figli che tiene per mano: no, non li venderebbe. In questo momento.
Sono storie comuni tra le donne degli oltre 250.000 rifugiati Rohingya che vivono nella regione di Cox Bazar, nel sud del Bangladesh.
I Rohingya sono gli “unwanted”, gli indesiderati del sud-est asiatico. Vivono in un ciclo di povertà, repressione, fuga, cattura e schiavitù. Sono un gruppo etnico, circa 800.000 persone, di religione musulmana sunnita, stanziati nel nord dell’Arakan, uno stato della Birmania (rinominato Rakhine) sul Golfo del Bengala. Etnicamente e culturalmente sono assimilabili ai bengalesi di Chittagong, da cui sono separati dal corso del fiume Naf. Per questa differenza in Birmania sono discriminati e perseguitati più di chiunque altro. Non sono riconosciuti come etnia e sono considerati “immigrati illegali”. Non hanno diritto di cittadinanza né documenti, non possono spostarsi dal loro villaggio senza permesso e per averlo devono pagare. Sono alla totale mercé di qualunque funzionario locale, che può disporre delle loro case e delle loro vite. Negli ultimi tempi sono impiegati come schiavi nella costruzione di una strada che attraversa l’Arakan per facilitare il traffico sempre più intenso tra la Cina e il Golfo del Bengala, il suo sbocco strategico sull’Oceano Indiano.
In nome del mahan lumyogyi naingnngan, di una nazione monolitica, una specie di reich birmano, per evitare che prolifichino, il governo etnocratico dell’SPDC, lo State Peace and Development Council, la giunta militare, ha imposto ai Rohingya una complica procedura per richiedere il permesso di sposarsi. Che pagano cifre per loro enormi: da 50.000 a 200.000 kyatt (da 600 a 2400 euro).
«Brutti come orchi» li ha testualmente definiti il generale Ye Myint Aung, console del Myanmar (come la giunta ha ribattezzato la Birmania) a Hong Kong, per dimostrare che non possono far parte della sua razza eletta, dalla carnagione «chiara e delicata» come la sua, in contrasto con la pelle «bruno scuro» dei Rohingya.
«Per i Rohingya la Birmania è un vero inferno. La loro unica alternativa è fuggire in Bangladesh. Per quanto possano vivere da disperati, qui almeno possono farlo» dice un attivista politico Rohingya, uno dei pochi, che il Foglio ha incontrato a Cox Bazar.
«Per i Rohingya l’unica strategia di sopravvivenza è la fuga» conferma Raymond Hall, funzionario dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) a Bangkok.
La fuga comincia attraversando il corso del Naf, cercando di sfuggire agli uomini del Nasaka, la guardia di frontiera birmana. «Appena vedono qualcuno dalla pelle scura avvicinarsi al fiume gli prendono tutto e stuprano le donne» racconta Jalal, un rifugiato.
Circa 28.000, i più fortunati, quelli fuggiti dalla Birmania quasi vent’anni fa, sono accolti nei campi rifugiati ufficiali sotto il controllo dell’UNHCR. Ogni due settimane ricevono una razione di cibo, due volte al giorno per un’ora viene erogata acqua, hanno una minima assistenza medica, scuole elementari. Nel campo di Ukhiya c’è addirittura un’officina per la riparazione dei risciò. Poi c’è il campo non ufficiale – anzi, il “sito”, com’è burocraticamente definito – di Leda. E’ stato allestito otto mesi fa e accoglie circa 15.000 persone che prima vivevano in condizioni subumane ai margini della strada e sulle rive del Naf. Grazie ai finanziamenti della Comunità Europea e al lavoro di alcune ONG adesso sono passate alla dimensione umana. Tutti gli altri Rohingya sopravvivono e muoiono negli altri “siti” dell’area. Quasi per una perversa legge del contrappasso, però, quelli nei campi ufficiali non possono trovare lavoro fuori, perché in tal caso sarebbero dichiarati illegali. Gli altri, in quanto già illegali, possono farlo. Come conducenti di ciclo-risciò, nella saline, pescatori. Il guadagno medio è di 100 taka il giorno, un euro e 16 centesimi. Quelli davvero fortunati sono riusciti a emigrare nei paesi del Golfo Persico dopo aver comprato un passaporto falso. Da là riescono addirittura a mandare soldi a casa grazie al sistema hundi, termine bengali che indica il trasferimento illegale di valuta.
Saugida e Amina, le donne che hanno venduto i figli, vivono nel posto peggiore di tutti, il campo di Kutupalong, “un putrido inferno di speranze perdute e inumano squallore” come lo ha definito un reporter del New York Times, tra capanne di fango e bambù. Durante la stagione delle piogge quei rifugi si sciolgono, ingrossando i canali di scolo dove confluiscono i rifiuti e le deiezioni di oltre 12.000 persone. Il minimo incidente può essere mortale: un uomo che si è ferito raccogliendo legna è seduto in terra mentre una donna gli massaggia la gamba. Si sente la febbre solo a passargli accanto.
In queste condizioni, ai Rohingya non resta altro che riprendere la fuga. Cercano di raggiungere la Malaysia, lo stato islamico che nei loro sogni si è trasformato in una terra promessa. «Sono convinti che Allah li proteggerà» commenta tristemente l’attivista di Cox Bazar.
Tra dicembre e marzo, quando il monsone invernale porta bel tempo e placa il Mar delle Andamane, i Rohingya s’imbarcano su battelli sgangherati al largo dei 120 chilometri di spiaggia tra Teknaf, all’estremo sud del Bangladesh, e Cox Bazar. Li dovrebbero condurre in Thailandia, dove la loro odissea prosegue via terra sino al confine malesiano. Molti di loro scompaiono in mare, muoiono di fame, di sete, divorati dagli squali.
Nei mesi scorsi, durante l’esodo di questa stagione, la marina thailandese è stata accusata di aver ricacciato in mare un migliaio di boat people Rohingya, abbandonandoli al loro destino con due sacchi di riso e due galloni d’acqua per barca. Di cinquecento di loro non si hanno più notizie. Altri sono detenuti in attesa d’essere rimpatriati.
Per far sì che la storia dei Rohingya superasse i confini del sud-est asiatico c’è voluto l’intervento di Angelina Jolie. In visita ad altri campi profughi in Thailandia come “goodwill ambassador” dell’UNHCR, ha espresso preoccupazione per la sorte dei Rohingya, invitando il governo thai ad accogliere questi nuovi boat people.
Secondo alcuni osservatori la Thailandia vuole evitare che le sue coste siano invase da flussi sempre maggiori di profughi dalla Birmania e dal Bangladesh. Alcuni ufficiali thai, inoltre, hanno manifestato il timore che i Rohingya possano essere reclutati dai movimenti integralisti del sud, che hanno dichiarato una guerra del terrore per creare uno stato islamico indipendente. In realtà, secondo molti esperti delle organizzazioni umanitarie, quest’ultima ipotesi sembra improbabile. Come sostiene un osservatore locale, una volta in Thailandia, infatti, i Rohingya sono presi in consegna da trafficanti di esseri umani che spesso godono dell’appoggio proprio dei militari locali. Se questi credessero davvero che sono potenziali terroristi non li farebbero passare in Malaysia, da dove possono infiltrarsi in Thailandia ancor più facilmente.
«I Rohingya sono tra le vittime predestinate dei trafficanti di esseri umani» ha confermato Kitty McKinsey, portavoce dell’UNHCR nel corso della conferenza stampa in cui è stato presentato il “Global Report on Trafficking in Persons” dello United Nations Office of Drugs and Crime (UNODC). Secondo gli analisti, i trafficanti hanno intessuto una vera e propria ragnatela che comprende campi sperduti nelle foreste della Thailandia sudorientale, dai quali i Rohingya sono smistati ai posti di lavoro nella Thailandia stessa e quindi in Malaysia o in Indonesia. Per essere intrappolati in questa rete i Rohingya accettano di pagare ai broker, gli intermediari, i dalal, come li chiamano in bengali, somme variabili tra i 20 e i 25.000 taka (dai 230 ai 290 euro), che verranno corrisposti detraendoli dai loro compensi. Ma quando partono non sanno che cosa andranno a fare né a che prezzo. Non sanno che quella cifra è solo per la prima tratta del viaggio, sino in Thailandia. Non sanno che nella maggior parte dei casi non saranno mai in condizioni di saldare il conto. Non sanno di essersi venduti.
Le storie che si raccontano nei campi Rohingya concordano in pieno con questi dati. In un caso la coincidenza è sconvolgente. Secondo il rapporto dell’UNODC, infatti, le donne sono proporzionalmente le più coinvolte nel traffico di esseri umani. Come trafficanti. E sono proprio le storie come quella di Saugida o Amina a confermarlo. In entrambi i casi è stata una donna a convincerle a vendere il proprio figlio, assicurando che gli avrebbero garantito un futuro migliore. La probabilità che sia stato adottato è minima: la maggior parte dei bambini sono venduti ai trafficanti d’organi, oppure ai pedofili, agli organizzatori di corse dei cammelli in Arabia Saudita per farne dei fantini, alle fabbriche per la lavorazione del pesce o a quelle di tappeti in Pakistan. Le loro piccole mani sono perfette per pulire i gamberi o intrecciare i tessuti.
Ed è stata una donna a tagliare i capelli di Amina. Di questi, almeno, si sa dove sono finiti: sono stati esportati in Birmania e là venduti in Cina per essere trasformati in parrucche o extension.
Che i Rohingya siano “voluti” solo dai trafficanti di esseri umani è confermato dalle decine di storie raccolte da il Foglio. Sono storie che non riesci a credere: pensi se le inventino per un’elemosina. Invece tendono la mano per darti una foto, un bigliettino con un nome e un indecifrabile indirizzo. Per loro sono messaggi in bottiglia.
E’ la storia di Dildar, 25 anni, tre figli di quattro, due e un anno. Abita in una baracca del “sito” di Leda. E’ arrivata in Bangladesh quattro anni fa, col marito Ashan. Si erano sposati di nascosto in Birmania, con la benedizione di un imam locale, ma non potevano convivere senza il permesso delle autorità locali e non avevano i soldi per pagarlo. Se li avessero scoperti, rischiavano di finire in prigione. Così, una notte hanno attraversato il Naf e si sono stabiliti sul campo che c’era sull’altra riva del fiume. Nel novembre scorso il marito ha deciso di tentare la fortuna in Malesia. Un uomo, racconta Dildar, gli ha detto che là avrebbe trovato un lavoro e con i soldi avrebbe pagato il viaggio. Lei ha dato il suo consenso perché pensava che così potevano sopravvivere. Ashan si è imbarcato la notte del 9 dicembre assieme ad altre 130 persone su una barca da pesca bangladeshi. Adesso Dilder sopravvive con le elemosine che raccolgono i figli.
E’ la storia di Norna, 26 anni, sposa a 14, con sei figli. Anche lei dipende dalle loro elemosine e anche suo marito è partito per la Malaysia in dicembre.
E’ la storia di Jahur, 74 anni. Lui è arrivato qua tre anni fa con la moglie e gli 11 figli. Era un contadino, viveva quasi bene nel suo villaggio in Birmania. Ma un giorno le autorità locali gli hanno confiscato la casa e il terreno. Gli hanno solo detto: “vai via di casa, ci serve”. Nel dicembre scorso il figlio ventenne è partito per cercare fortuna in Malaysia. Ogni tanto il vecchio Jahur pensa di tornare in Birmania, poi ci rinuncia perché ha paura e perché ormai i figli sono in età di matrimonio e là non potrebbero sposarsi.
Nessuno di loro ha più avuto notizie. Le uniche informazioni sulla sorte di tutti quegli uomini sono i vaghi messaggi portati da qualche marinaio bangladeshi. Dicono che le barche sono state fermate dalla marina indonesiana o da quella indiana mentre vagavano nell’Oceano Indiano. Per quanto confusi, questi racconti corrispondono ai rapporti ufficiali degli ultimi mesi: molte delle barche che portavano i Rohingya, dopo essere state respinte in mare dalla marina thailandese, hanno fatto rotta per gli arcipelaghi indiani delle Andamane e delle Nicobare o per la provincia indonesiana di Banda Aceh, a Sumatra. I più sfortunati sono stati bloccati prima, al largo delle coste dell’Arakan, dalle navi birmane. «Loro sono tornati all’inferno» dice Jamal, un bangladeshi di Cox Bazar che da anni segue le vicende dei Rohingyas. Sono destinati ad almeno sette anni di prigione o ai lavori forzati.
«E’ una vecchia, tragica storia» commenta Jamal. Come tutti i bangladeshi, da un lato compatisce i Rohingya, sente una sorta di fratellanza etnica e religiosa. Dall’altro è cosciente del fatto che il Bangladesh non può accoglierli, è costretto a porre freno alla loro fuga. «Se accettasse di aprire nuovi campi ufficiali arriverebbero altri Rohingya a popolare i siti abbandonati. E qui siamo già in troppi per troppo poco lavoro. Sarebbe una guerra tra poveri».
Più duro un funzionario pubblico bangladeshi. «I Rohingya preferiscono stare qui e non avere vita piuttosto che tornare nel loro paese e lottare».
Le stesse contraddizioni si avvertono in Thailandia, che vanta una tradizione buddhista di paese “compassionevole”, ha accolto e accoglie centinaia di migliaia di rifugiati. Ma che ora, nella prospettiva di una crisi economica globale, teme di essere letteralmente “invasa”. Anche per questo le critiche per il rifiuto di accogliere i rifugiati Rohingya e le violenze contro di loro sono state interpretate in chiave “occidentalista”: l’ennesimo segno dell’arroganza dei paesi più ricchi, che giudicano secondo il loro metro di giudizio, senza assumersi alcuna responsabilità.
«Gli inglesi hanno occupato la Birmania, quando gli ha fatto comodo. Dovrebbero tornarci, se vogliono mettere a posto le cose» ha dichiarato con la sua abituale rudezza il colonnello Manas Kongpan, responsabile regionale dell’Internal Security Operations Command, in un seminario sui Rohingya svolto alla Chulalongkorn University di Bangkok pochi giorni fa.
Nella stessa occasione il rappresentante regionale dell’UNHCR ha ammesso che la soluzione a lungo termine del problema dei Rohingya può essere definita solo in Birmania. In caso contrario, questo potrebbe divenire, oltre che un problema umanitario, un problema per tutta l’area. Per prevenire tale eventualità il governo Thailandese e quello indonesiano hanno indetto un meeting internazionale (che dovrebbe svolgersi a fine marzo).
Nel frattempo in Birmania sembra che la giunta stia seguendo la sua road map per un passaggio a una forma di dittatura morbida, o democrazia limitata, che sembra divenuta il modello dell’area. Ne è segno la liberazione di qualche decina di detenuti politici. In compenso il Segretario di Stato Americano Hillary Clinton, dopo il suo viaggio in Cina, ha dichiarato che l’amministrazione del presidente Obama sta pensando di offrire nuove chance al governo birmano.
Mentre accadevano tutte queste grandi manovre, nel campo di Kutupalong hanno sepolto Selina Begum. Aveva 63 anni. Per la gente di là è morta di vecchiaia.

Spie, spettri e storie

«Non sono un letterato. Sono uno che racconta storie. Scrivo favole per adulti. Perché la maggior parte di loro fa una vita di merda». Così diceva Gérard de Villiers, 83 anni, appena tornato dall’Afghanistan, in un’intervista rilasciata all’inizio di quest’anno al New York Times. E’ morto il 31 ottobre. Stava per scrivere il suo duecentesimo romanzo della serie dedicata a SAS, Sua Altezza Serenissima Malko Linge, principe austriaco che per restaurare il castello avito lavora come free lance per la Cia. Le precedenti avventure di questo nobiluomo, iniziate nel 1965, sono state vendute in quasi tutto il mondo per un totale di 150 milioni di copie, permettendo all’autore di vivere come il suo personaggio in una splendida casa parigina e in una villa di Saint Tropez.
L’intervista al New York Times era intitolata
L’autore di romanzi di spionaggio che sapeva troppo. Definizione perfetta, che spiega il successo delle sue storie. De Villiers metteva in pagina trame che erano straordinariamente vicine al vero. In alcuni casi lo anticipavano. Condite con sesso e violenza estremi e assoluta precisione degli scenari.
“Il vero spionaggio è così. Un intrigo nell’intrigo, trame che si contraddicono, inganni e tradimenti, controlli incrociati, agenti veri, agenti falsi, agenti doppi, oro e acciaio, la bomba, il pugnale e il plotone d’esecuzione…aggrovigliati in un ordito così intricato da risultare incredibile, eppure vero” ha scritto Winston Churchill.
“Lo spionaggio è in sé una forma narrativa, la creazione di mondi” scrive Ben Macintyre, esperto d’intelligence recensendo un romanzo di spionaggio,
An American Spy, e sospettando che l’autore, Olen Steinhauer, sia l’agente di qualche servizio. Mentre Evan Thomas, altro giornalista che studia il mondo delle spie, parla della “wilderness of mirrors”, la giungla degli specchi, citando la teoria di James Jesus Angleton, capo della sezione controspionaggio della Cia dal 1954 al ’75, che a sua volta aveva ripreso un verso di T.S. Eliot.
Anche da morto Gérard de Villiers ha la capacità d’innescare un intreccio di trame che all’apparenza inganna. Ci si perde davvero in una giungla di specchi e poco a poco non si distinguono il vero, il falso, il verosimile. Alla fine si scopre che tutto può esserlo al tempo stesso. Dipende dal mondo in cui ci ritrova, dalla storia che si legge o vive.
Io, per esempio, Gérard de Villiers lo conoscevo molto bene. Ho girato Bangkok con lui molti anni fa, prima di stabilirmi nella Città degli Angeli, come gli piaceva chiamarla. Stava scrivendo una storia ambientata qua. Non ricordo la trama. Ricordo che mi fece scoprire la città in tutti i suoi recessi. Ma non gli bastava esplorarne i lati oscuri. Cosa che pure faceva con entusiasmo. Riusciva a cogliere ogni connessione tra ciò che vedeva, che gli rivelavano le sue fonti e le informazioni che metteva assieme come un collezionista. Aggiungendo un po’ di fantasia e molto intuito riusciva così ad accordare mondi e i tempi: visibile e occulto, passato, presente e futuro.
«Non c’è nessun segreto nel prevedere le cose. Seguo le tendenze che mi si rivelano per esperienza, mi baso sui miei contatti e su quello che leggo, compresi i rapporti che riesco a trovare. Poi metto tutto in bella copia» ha detto Gérard. Un modus operandi canonizzato dal suo amico Jean-Louis Gergorin, uno dei fondatori del Centre d’analyse, de prévision et de stratégie del ministero degli Esteri francese: “un rapporto, per essere credibile, deve rifiutare l’opinione corrente, incrociare le fonti e i punti di vista. Esattamente quello che fa lui”.
“Lui fa un lavoro di reportage alla vecchia maniera. Cerca di comprendere senza giudicare. Le sue descrizioni crude, grezze, anticonformiste, sono vicine alla realtà“ ha commentato Hubert Védrine, diplomatico e politico socialista che non può essere accusato di simpatizzare con De Villiers, un reac, reazionario, disprezzato (ma letto) dall’intelligenza gauchiste.
Quel modo di lavorare, mettendo assieme crudo e cotto, nella tradizione dei grand reporter, razza in via d’estinzione, si rivela tanto più utile in posti come Bangkok, dove le analisi geopolitiche si confondono coi pettegolezzi dei bar. Me l’avrebbe confermato, qualche anno dopo, un personaggio che sembra uscito da uno dei romanzi di De Villiers, un intermediario d’affari vietnamita. Mi aveva dato appuntamento in una pizzeria sul fondo di un vicolo della Sukhumvit, la via centrale di Bangkok. Sapevo che aveva contatti d’affari un po’ con tutti e volevo verificare se le relazioni tra Thailandia e Usa fossero minacciate dai sempre più stretti rapporti del Regno con la Cina. Lui sorrise con quell’aria d’ironica compiacenza che gli asiatici d’un certo rango riservano ai farang, gli stranieri. «Non dimenticare che in Thailandia c’è il più grosso centro per le cover operation della Cia dopo quello di Langley» fu la risposta.
A osservare Bangkok come faceva De Villiers - o quel vietnamita – non stupiscono affatto i leaks di Edward Snowden secondo cui le ambasciate americane, britanniche, australiane e canadesi erano utilizzate per operazioni di cyber-intelligence in tutta l’Asia. Il documento di Snowden precisa che gli strumenti di sorveglianza sono spesso nascosti in false sovrastrutture architettoniche. Il che, a ben guardare, giustificherebbe il design futuristico dell’ambasciata australiana di Bangkok o di Phnom Penh.
Molti anni dopo, nel 2009, De Villiers è tornato in quella che nel frattempo era diventata la mia città per ambientarci un’altra avventura di Sas: “Trappola a Bangkok”.
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In questo caso la trama ruotava attorno a Viktor Bout, ex ufficiale dell’Armata Rossa divenuto trafficante d’armi. Su di lui avevano già scritto un libro: Merchant of Death: money, guns, planes, and the man who makes war possible. Il libro aveva anche ispirato il film “Lord of War” interpretato da Nicholas Cage. Nel 2008 Bout era stato arrestato al Sofitel Silom Hotel da agenti del CSD, la Crime Suppression Division thailandese, e della DEA, la Drug Enforcement Administration americana, che avevano agito in base a un mandato di cattura emesso dalle Nazioni Unite. Da allora Bout era stato al centro di una battaglia legale tra il governo Usa, che ne chiedeva l’estradizione, e quello russo, che lo dichiarava un “innocente uomo d’affari”. Per il governo thailandese era, di volta in volta, un problema o un’opportunità. Nel novembre 2010 è stato estradato negli Stati Uniti “improvvisamente, segretamente e in violazione sia delle norme internazionali sia della legge thai”, come si legge in un comunicato dell’ambasciata russa a Bangkok. Nel frattempo, il maestro del “romanquête”, il romanzo inchiesta aveva “messo in bella copia” tutta quella vicenda, aggiungendoci il personaggio di Ling Sima, bellissima e spietata colonnello dei servizi segreti cinesi. Accadeva proprio negli anni in cui, come oggi scoprono molti analisti, la Cina stava sviluppando un servizio di spionaggio in grado di competere con la Cia. Mettersi in mezzo tra Thailandia e Stati Uniti rientra perfettamente nella strategia cinese: incrinare le alleanze del nemico.
Per l’ennesima coincidenza anch’io stavo indagando su quella storia. Probabilmente le mie piste si sono incrociate con quelle di De Villiers: nel quartiere a luci rosse controllato dai russi o nelle hall dei grandi alberghi dove stazionano quei personaggi che a Bangkok “risolvono i problemi”. Ma non ci siamo incontrati.
Io, in realtà, Gérard De Villiers non l’ho incontrato mai. Non di persona. Ma lo conoscevo bene perché studiavo il suo personaggio. Leggevo tutti i suoi libri. Di due ho anche scritto un’introduzione quando
Segretissimo gli dedicò una collana. Li portavo con me nei posti dove andavo per un servizio se erano ambientati là. Non sbagliava una coordinata, un numero di via, la descrizione d’un interno. In diverse occasioni, che fosse in Birmania, Laos, Cambogia o Vietnam, De Villiers si è rivelato una guida perfetta. In un caso, a Yangon, credo proprio di aver incontrato un suo vecchio amico dello SDECE, il Service de documentation extérieure et de contre-espionnage (poi divenuto DGSE, Direction générale de la sécurité extérieure).
E poi avevo un amico – questa piccola storia è dedicata a lui - che aveva lavorato a Segretissimo e l’aveva intervistato. Mi aveva raccontato di un uomo che incarnava il suo protagonista, con una segretaria-guardia del corpo (o era più d’una?), inguainata in una tuta di latex nero.
In un modo o nell’altro, De Villiers era diventato un fantasma, uno spettro. Ma non di quelli, orrendi, che popolano gl’incubi e i film horror. Di quelli, misteriosi, affascinanti, ambigui, ma pur sempre in carne e ossa, che vivono nell’underworld o nel mondo del Grande Gioco globale, nella giungla degli specchi. In America li chiamano Spook. Come dice Yuri Orlov, il personaggio interpretato da Nicolas Cage alla fine del film “Lord of War”, un istante prima di essere liberato: «A volte hanno bisogno di un free lance come me. Mi chiami demone, ma sono un demone necessario». Accade sempre così: quando la realtà diventa fiction, perde la sua natura originaria, entra in una dimensione mitologica. Poi, quando si manifesta nuovamente come realtà, allora si sposta in una zona d’ombra.
In Thailandia, dove gli Spiriti condividono il nostro spazio ma in un’altra dimensione, osservandoci dalle saan phra phum, le Case degli Spiriti disseminate nelle strade, nelle abitazioni, nei giardini, la figurina di De Villiers andrebbe a raggiungere quelle di Jim Thompson o Tony Poe. Entrambi personaggi di cui ho seguito le tracce tra Thailandia, Laos e Malesia, e che, da oggetto di articoli si sono trasformati in spiriti che appaiono e scompaiono quando meno me l’aspetto. La loro vita è uno scorcio tra l’avventura, la storia, la geopolitica, il romanzo, una di quelle vicende che potevano compiersi solo in un teatro come il bacino del Mekong.
Jim Thompson, noto anche come “il re della seta thai” era arrivato in Thailandia alla fine della seconda guerra mondiale come agente dell’Office of Strategic Services (OSS), antesignano della Cia. Poi si era dimesso per dedicarsi agli affari e alla collezione d’arte che raccoglieva nella sua splendida casa in teak sul bordo di un khlong, un canale. Secondo molti, però, continuava il suo vecchio lavoro da free lance. Quella casa dove riceveva le celebrità di passaggio a Bangkok era una centrale operativa dove si raccoglievano informazioni vitali per un’America che stava per perdersi nelle giungle del Vietnam. Col tempo, però, Thompson divenne sempre più simile a Thomas Fowler, il personaggio del romanzo di Graham Greene Un americano Tranquillo, più attento alle sfumature nel sorriso di un Buddha che alle strategie politiche. Una storia che ha alimentato e alimenta i sospetti sul mistero della sua scomparsa, il giorno di Pasqua del 1967, lungo un sentiero delle Cameron Highlands, nel centro-nord della Malesia.
Anthony Poshepny, meglio conosciuto come
Tony Poe, invece, è morto in pace il mattino del 27 giugno 2003. Dopo la seconda guerra mondiale, che aveva combattuto da marine sul fronte del Pacifico sud-occidentale riuscendo a sopravvivere allo sbarco di Iwo Jima, divenne un agente della Cia. Negli anni Sessanta fece base in Laos, conducendo la sua personale guerriglia contro i Viet Cong e il Pathet Lao, con incursioni in Cina e Birmania, da cui, dicono, tornasse con trofei di collane d’orecchie. Sembra che il personaggio del colonnello Kurtz di “Apocalypse Now” sia stato concepito a sua immagine. Alla fine, però, anche Tony cominciò a dubitare della guerra. «Fu la semplice realtà, più di qualunque altra cosa, a sconfiggere Tony» racconta un agente ai suoi ordini.
La realtà sta sconfiggendo i miti e forse la morte di De Villiers segna davvero un passaggio. Quello tra la cosiddetta humint, l’intelligence in cui erano protagonisti gli uomini, e la cyber-intelligence in cui tutto si svolge nell’ennesimo mondo parallelo, il cyberworld. Non a caso La lista nera, ultimo romanzo di un altro grande scrittore di spionaggio,
Frederick Forsyth, si sviluppa soprattutto in questo nuovo teatro. Agli uomini, come quelli del Joint Special Operations Command, è riservato il lavoro che non riescono a compiere i droni.
«Il cyberworld è la nuova frontiera del selvaggio west» ha detto il Generale Dani Arditi, ex presidente del National Security Council israeliano, in occasione della
conferenza sul Cyber Warfare che si è recentemente svolto a Bangkok. Ma ha aggiunto che, proprio per questa natura selvaggia – come nella wilderness of mirrors - «Bisogna essere flessibili. Nulla è stabile in questi giorni». E ha concluso con un sorriso: «Viviamo in tempi interessanti». Mi ha ricordato De Villiers.

La donna drago, il taoista e altri demoni

«Qui il clima per gli imprenditori è perfetto. Ma devi essere pronto ad assumerti i rischi. Non puoi sopravvivere da solo». Era uno dei discorsi davanti al mare e un drink sulla spiaggia del Knai Bang Chatt, boutique hotel di Kep, sulla costa meridionale della Cambogia. Kep, per la sua storia d’ascesa, decadenza, rinascita, è uno dei posti dove puoi rilassarti parlando del senso della vita, passando con nonchalance dai ricordi dell’orrore alla mondanità. Dove ogni conversazione è carica di sottintesi e le battute hanno spesso un senso macabro. «Se vuoi morire guardando il mare, allora guarda la foresta», dice il proprietario dell’albergo. Ma questa è una storia trascorsa.
Adesso Kep ne ha una nuova. Ha per protagonista l’ennesimo architetto francese. Ce ne sono passati molti, da Roger Colne, autore del casinò di Kep, che fu ucciso dai khmer rouge. Oggi Kep si è ripopolata di architetti che studiano le rovine delle sue ville moderniste, le ristrutturano, cercano un briciolo di fortuna o si godono quella conquistata nella Cambodia Redux.
L’architetto di questa storia si chiama Patrick-Henri Devillers, ha 52 anni, da sei vive in Cambogia, ha una moglie cambogiana che gli ha dato un figlio, abita a Phnom Penh in un palazzotto coloniale di due piani preso in affitto ed ha acquistato un piccolo lotto di terra a Kep, dove si è progettato e costruito un cottage in materiali naturali. Gira su un vecchio pick-up o su una bicicletta elettrica. E’ un uomo dall’atteggiamento tranquillo, tradito da un sorriso ironico, i capelli grigi, le spalle leggermente curve, un paio d’occhiali da lettura appesi a un cordoncino nero al collo.
«Lui non è un criminale che vive nell’ombra. E’ piuttosto un poeta» dice un suo amico. «E’ una persona dolce» assicura un businessman che ha lavorato con lui. Concorda con sarcasmo, suo padre, Michel Devillers. «Negli affari è un inetto. Lui è un artista».
Devillers, probabilmente, si sente più come uno di quei saggi erranti per l’Asia, ribelli alla tradizione e alla coercizione della consuetudine, che cercavano di affermare il valore dell’individualità. Erano i seguaci del Tao, i cultori del
Tao-te-king, il testo che raccoglie sentenze e pensieri di Lao-tze, uno dei venerabili che hanno elaborato quel sistema di pensiero nel VI secolo a.C.. E tale, un taoista, si definisce Devillers, citando a sua difesa una sentenza del Tao-te-king: “Non offrire al diavolo qualcosa a cui opporsi e lui sparirà”. Il problema è che deve far fronte a molti demoni, in particolare a quelli definiti “I diabolici di Chongqing», all’origine della sua attuale condizione. Perché Devilliers è stato arrestato il 13 giugno e sembra sia rinchiuso in un carcere vicino a Pochetong, l’aeroporto di Phnom Penh. E’ detenuto su richiesta del governo cinese per il possibile coinvolgimento in un omicidio collegato al più grande thriller politico della Cina dai tempi di Lin Biao, morto in circostanze misteriose dopo un fallito colpo di Stato contro Mao nel 1971.
I diabolici di Chongqing sono il “principe rosso” Bo Xilai e sua moglie Gu Kailai, coppia che sino a poco tempo fa assommava enorme potenza e ricchezza nella seconda potenza planetaria. Figlio di Bo Yibo, uno degli “Otto Immortali” (i fidati compagni di Mao), negli ultimi vent’anni Bo ha compiuto un’irresistibile ascesa: sindaco della città di Dalian, ministro del commercio, membro del Politburo, sindaco e segretario del partito di Chongqing, la più estesa metropoli cinese, popolata da quasi 34 milioni di persone. Bo sembrava destinato a salire ai vertici del potere e perseguiva un progetto politico neo-maoista. All’ascesa è seguita la repentina caduta. Il 15 marzo è stato rimosso da tutte le cariche, messo sotto inchiesta per “gravi violazioni disciplinari”. Il 10 aprile sua moglie Gu è stata arrestata con l’accusa di omicidio.
A questo punto bisogna fare un flash back al 15 novembre 2011, quando in un albergo di Chongqing viene scoperto il cadavere di Neil Heywood, 41 anni, cittadino britannico, socio in affari di Gu da oltre 10 anni. Heywood ha anche aiutato il figlio, Bo Guagua, a ottenere l’ammissione a una delle più prestigiose scuole inglesi. Secondo un primo referto è morto per un attacco cardiaco scatenato da abuso di alcolici. Per qualche strano motivo non si procede a ulteriori accertamenti e il corpo viene immediatamente cremato. Ma proprio questo, per investigatori iper-sospettosi come i cinesi, comincia a destare qualche sospetto. E la principale indiziata è Gu, donna di grande fascino e ambizione, nonché presunta amante di Neil.
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Per qualche tempo sembra che sia destinato a restare uno dei tanti misteri del potere. Finché, nel febbraio scorso, Wang Lijun, capo della polizia di Chongqing si presenta al consolato americano di Chengdu chiedendo asilo. A quanto si dice Wang si era spinto un po’ troppo oltre nelle sue indagini e temeva la reazione di Bo. L’uomo resta solo un giorno nel consolato prima che gli americani lo consegnino agli ufficiali del servizio di sicurezza cinese arrivati da Pechino. Intanto, però, ha rivelato i suoi sospetti su Gu Kailai e altre informazioni sugli affari intercorsi tra la famiglia e lo stesso Heywood. A quanto pare, Madame Gu avrebbe ordinato l’omicidio del suo amante perché questi avrebbe preteso una tangente troppo alta su un trasferimento di denaro all’estero. Come se tutto ciò non bastasse, Heywood non era un uomo d’affari come tanti altri. Aveva lavorato per l’Mi6, il servizio di spionaggio estero britannico, e aveva mantenuto rapporti di lavoro con una società privata d’intelligence popolata da ex agenti Mi6.
A quel punto il thriller diventa davvero politico, una mossa nell’interminabile gioco di strategia che ha per posta il potere in Cina. Si scoperchia un nido di vipere. Trapelano accuse di rapimento, tortura, estorsione, gestione di traffici illegali e prostituzione. Secondo un tabloid di Hong Kong, tra le donne che avrebbero concesso i loro favori agli uomini del clan di Gu ci sarebbe anche l’attrice Zhang Ziyi (che ha querelato il giornale). La ricordiamo nel film
La Tigre e il Dragone: delicata ma affilata, leggera ma ferrea, lo sguardo che sembra scandire lo spazio attorno, i capelli che appaiono come ala di corvo a incorniciare una pelle perfetta, una fisicità che rende credibili le magie del mito e della scena.
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Scene come queste, tuttavia, sono solo un contorno alla vicenda centrale: un quadro di corruzione, concussione, intrecci di potere degno degli ultimi giorni dell’impero Qing. Appare qui un altro degli interpreti principali, Xu Ming, businessman che ha legato le sue fortune a quelle di Bo Xilai e di cui non si hanno più notizie dalla fine di marzo, quando è stato arrestato. Nel 1993, quando Bo diviene sindaco di Dalian, Xu, poco più che ventenne, aveva appena aperto un’impresa per l’esportazione di gamberi. Nel 2004, quando Bo è nominato ministro del commercio, la società di Xu ottiene la licenza per l’importazione di greggio e petrolio raffinato. L’anno seguente la rivista
Forbes lo classifica come il quinto uomo più ricco della Cina.
Ed ecco che entra in scena il nostro gentile taoista, monsieur Devillers. E’ lui, che allora vive in Cina ed ha sposato l’erede di un’importante famiglia di Dalian, che fa da consulente a Bo per la ricostruzione della città. Ed è lui il partner della Signora Gu quando questa decide di aprire una società in Gran Bretagna destinata a selezionare gli architetti europei che avrebbero dovuto progettare le nuove cattedrali dell’economia cinese. Anche dopo aver lasciato la Cina ed essersi trasferito in Cambogia, Devilliers ha mantenuti stretti rapporti con loro. Nel 2006 lui e suo padre Michel – nonostante l’apparente disistima che questi ha per lui - hanno aperto la D2 Properties, società immobiliare con sede in Lussemburgo che, si dice, sarebbe servita anche come copertura per le esportazioni di capitali della Signora Gu.
Sono tutte operazioni che avrebbero messo in contatto Devilliers anche con Xu Ming e Neil Heywood. Ecco perché i cinesi sono tanto ansiosi di parlargli. Non è un caso, nota il Telegraph, che l’arresto di Devilliers sia avvenuto una settimana dopo la visita in Cambogia di He Guoqiang, membro del politburo cinese, nonché capo della Commissione disciplinare del Partito Comunista, uno degli artefici delle disgrazie di Bo. Dopo quella visita, il governo cinese, già il maggior creditore e finanziatore della Cambogia, ha ulteriormente incrementato la sua influenza con 430 milioni di dollari d’investimenti.
Forse non sono stati sufficienti, dato che il ministro degli esteri cambogiano Hor Namhong ha dichiarato che negherà l’estradizione di Devilliers se la Cina non fornirà prove sufficienti a dimostrare attività criminali. «Per quanto denaro la Cina possa mettere sul piatto, le elite cambogiane sono ancora legate alla Francia. Personalmente, sentimentalmente e finanziariamente. I loro soldi sono là» ha scritto Jean-Pierre Cabestan, specialista in relazioni franco-cinesi alla Hong Kong Baptist University.
E’ probabile, quindi, che Devilliers possa tornare a Kep a mangiare granchi al pepe guardando il mare. Se ciò accadrà, sarà difficile che possa godersi a fondo quei momenti. Il pensiero gli tornerà a Gu, la donna che forse è stata una delle sue numerose amanti.
Alla fine questa storia potrebbe avere un sequel con la ricomparsa o la scomparsa definitiva della Signora Gu, l’ultima delle Dragon Lady, donne asiatiche misteriose, ammaliatrici, a volte buone, più spesso crudeli, sempre potenti. Donne che nell’America anni Trenta sono state protagoniste di film d’avventura, romanzi e fumetti, ma che nelle loro incarnazioni storiche si sono manifestate in modo ancor più conturbante.
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Come Cixi, ossia “Materna e Propizia”, titolo conferitole alla morte dell’imperatore Xianfeng, nel 1861, quando riuscì a farsi proclamare imperatrice. La sua ascesa era iniziata quando era la concubina chiamata Piccola Orchidea. “Il labbro inferiore, dipinto di rosso, a forma di lacrima, sembrava una ciliegia”.
Come Soong May-ling, Madame Chiang Kai-shek, moglie del generalissimo che dominò la Cina per vent’anni. “Brillante, intrigante, incredibilmente sexy, deliberatamente affascinante, coraggiosa, corrotta, donna camaleonte”.
Come Jiang Qing, nome d’arte di Li Shumeng. Attrice convertita al comunismo, ultima moglie di Mao Zedong, forse fu lei a suggerire al Presidente la storica affermazione: “le donne reggono l'altra metà del cielo”. Nel 1976, un mese dopo la morte di Mao, fu arrestata con l’accusa di voler rovesciare il governo. E’ morta nel ’91, prigioniera, forse suicida, forse per mancanza di cure.
Quale sarà la sorte di Gu?

La morte in luoghi remoti

FakingItInBangkok2Gli omicidi accadono ovunque la gente vive. Nessun paese è risparmiato. Per quelli che rimangono, un omicidio è una tragedia, qualcosa che resta impresso nella memoria tutta la vita. La realtà è che la maggior parte degli omicidi sono affari interni. Spesso si verificano nello stesso paese in cui l’assassino e la vittima sono nati, educati, hanno lavorato e si sono divertiti. L’assassino e la vittima spesso hanno condiviso cultura e linguaggio. Probabilmente hanno visto gli stessi film e programmi televisivi. Per loro erano famosi gli stessi personaggi, che, al di fuori di quel comune contesto, sono del tutto sconosciuti. In altre parole, possiamo considerarli come appartenenti alla stessa "tribù".
Quando qualcuno è vittima di un omicidio in un paese straniero e l’assassino o gli assassini sono nativi di quel paese, l’uccisione accende l'interesse dei media. Sin da “Morte a Venezia” di Thomas Mann, abbiamo il sospetto che, quando qualcuno è ucciso in un paese straniero, dobbiamo prestare particolare attenzione ai legami tribali della vittima e dell’assassino. Anche se in “Morte a Venezia” il killer era il colera, e non qualcuno con un coltello o una pistola, il punto è che la morte in vacanza attira l’attenzione.
In primo luogo, tutti noi facciamo o sogniamo di fare le vacanze in terre straniere. Ci attrae l’idea di distenderci su un’incontaminata spiaggia di sabbia bianca con un bel drink sormontato da uno di quegli ombrellini di carta, rilassarci e godersi la brezza del mare. Se qualcuno, proprio come te, un rispettabile impiegato della classe media, apre un giornale e legge di qualcun altro del tutto simile a lui che è stato trovato con un coltello nella schiena, quella morte diventa quasi un fatto personale. Potrebbe essere accaduto a te su una spiaggia in Francia, Grecia, Thailandia o India, il tipo di posti dove sei stato o vorresti andare.
In secondo luogo, come in “Morte a Venezia”, la polizia e i funzionari governativi dei paesi che promuovono la “vacanza da sogno” possono dimostrarsi ben poco disponibili quando uno straniero è aggredito o ucciso. In quanto rappresentanti del governo hanno un conflitto d’interessi. Devono dimostrare che il loro paese amministra un sistema di giustizia penale degno di rispetto a livello internazionale. Non c’è forza di polizia o sistema giudiziario di qualunque paese che sia felice di trovarsi improvvisamente alla ribalta mondiale per un’inchiesta sulla morte o sulla violenza di uno straniero. L’ambasciata pertinente telefona ai funzionari più importanti, i parenti della vittima e i parlamentari locali vogliono accertarsi che l'ambasciata faccia seguito a richieste d’informazioni. Spuntano i giornalisti del paese della vittima facendo domande a tutti. I social network diffondono messaggi di paura e ostilità.
In maggio gli arrivi dei turisti in Thailandia sono aumentati del 66 per cento rispetto a un anno fa (1,3 milioni a fronte di 826.000), e il paese ha il maggior profitto turistico di ogni altro in sud-est asiatico. In questa situazione è facile perdere il controllo, tanto più che il governo di un paese come questo, nel caso dell’omicidio di un turista,
deve far fronte a molte sollecitazioni. I suoi funzionari sono preoccupati del calo degli arrivi e dell’impatto che avrebbe sui posti di lavoro e sull’economia alberghiera, così come del conseguente effetto di crisi, con riduzione delle entrate nei centri di vacanza. Le località turistiche sono un bacino elettorale. La tensione dall’estero è alta, ma mai tanto alta come quella provocata dagli elettori scontenti.
Ho sollevato la questione dei centri di villeggiatura, come Pattaya e Phuket, perché di recente hanno fatto notizia come luoghi in cui gli stranieri sono stati aggrediti, stuprati, picchiati o uccisi.
La stampa estera non sempre distingue i casi che riguardano i turisti da quelli degli espatriati. Forse non è così, ma sarebbe auspicabile che un espatriato che vive in un altro paese (in contrapposizione a un turista in vacanza) avesse migliore informazione e maggiore esperienza della popolazione, i costumi e la cultura locale e fosse così in grado di stare alla larga dai guai con maggiore facilità. Chiunque abbia bazzicato un po’ l’ambiente degli espatriati, però, ne avrà incontrato qualcuno che supera i limiti e si espone al rischio d’aggressione o omicidio per il suo coinvolgimento in attività criminose. In tal caso, la tensione si attenua dato che la vittima dell’omicidio non è più l’immagine speculare di chi se ne va tranquillamente in vacanza in Thailandia, bensì di qualcuno che probabilmente è coinvolto in affari illeciti. Naturalmente, anche i turisti si mettono nei guai…

La pressione della cattiva pubblicità diminuisce quando i presunti assassini sono essi stessi stranieri. In altre parole, se qualcuno viene ucciso in una terra esotica da un compatriota, ciò ha un diverso impatto emotivo sui potenziali turisti che devono programmare le vacanze. Sembra che la vera paura non sia tanto di essere uccisi, quanto di essere uccisi da uno straniero in una terra lontana. Essere ucciso da qualcuno della tua stessa nazionalità appare un fatto normale. Essere ucciso da cittadini di un altro stato, beh, questo è molto peggio, soprattutto se sono degli “indigeni”, dato che sono proprio loro le persone che appaiono felici nella brochure di viaggi che ti hanno convinto che quel luogo di villeggiatura era un luogo ideale per rilassarsi (non certo per farsi ammazzare). Il motivo per cui noi classifichiamo mentalmente gli omicidi a seconda che avvengano all’interno della stessa tribù o coinvolgano membri di tribù diverse è davvero una di quelle questioni circa l’evoluzione che gli scienziati dovrebbero prima o poi analizzare. Ma sino a quel momento i turisti continueranno ad aver più paura quando uno straniero viene ucciso in un paese lontano da un abitante di quel paese.
Le tragedie che i governi hanno maggiori probabilità di evitare richiamando l’attenzione internazionale, sono spesso determinate da problemi quali la mancanza di formazione, la disattenzione, la manutenzione scadente, la insufficienti norme sanitarie, la mancanza di controllo sugli alimenti o sugli animali domestici, e, più in generale, un comportamento imprudente. In queste categorie di cause rientrano i traghetti che affondano, gli incidenti aerei, ferroviari, stradali, le epidemie e le infezioni virali, le malattie derivate da fenomeni meteorologici estremi e inquinamento. Rispetto a un omicidio, queste morti per cause non di violenza personale, conquistano i titoli dei media di tutto i mondo e, se la magnitudine è sufficiente, possono seriamente disturbare il business del turismo.
C’è da rilevare, però, che, quando lo tsunami ha colpito la Thailandia nel 2005 e migliaia di persone sono state uccise, tra cui migliaia di turisti stranieri, non ci sono state gravi conseguenze sul turismo, che si è ripreso in breve tempo. Il motivo per cui lo tsunami, di gran lunga più devastante e distruttivo di un singolo omicidio, ha avuto meno impatto in tal senso, è semplice. I turisti non incolpano i locali della morte dei loro cari a causa di calamità naturali. Gli stranieri hanno piuttosto provato ammirazione per gli sforzi del governo thailandese per recuperare i corpi, informare i parenti, fornire informazioni e conforto ai sopravvissuti.
Basta un omicidio, invece, perché un potenziale turista si fermi a riflettere chiedendosi: “devo annullare quel viaggio in Thailandia, o in Messico, o in Sri Lanka, perché un turista è stato ucciso e la polizia e il governo non sembrano troppo impegnati nel risolvere il caso?”. Conta poco se la polizia o le autorità locali stanno lavorando tutto il giorno sul caso, ciò che conta è la percezione che qualcuno del loro paese è stato assassinato e la polizia non ha ancora arrestato nessuno.
La pressione internazionale sulla polizia locale dei paesi esotici può anche avere un effetto controproducente. Possono scegliere un capro espiatorio e addossare la colpa a lui o lei. Il sospetto viene filmato nella ricostruzione del crimine. Sembra tutto così reale. Vera o no, avrà l’effetto desiderato e rassicurerà gli stranieri sull'efficienza e la diligenza delle autorità nell’affrontare questi casi. Tutto ciò garantisce una sensazione di deterrenza e tanto basta a cancellare quel po' di dubbi sui vostri piani per le vacanze. Tuttavia, ciò che è buono per la vostra psiche non è lo è altrettanto per quel disgraziato che resterà a marcire in prigione.
La prossima volta che leggerete di un turista ucciso in un remoto luogo esotico, non chiedetevi se è dovete annullare la vostra vacanza laggiù, ma se, a conti fatti, il rischio maggiore è di essere assassinato in vacanza o di essere ucciso in un incidente d’auto sulla strada per l'aeroporto. Se considerate le probabilità, nella maggior parte dei casi, la parte più pericolosa della vostra vacanza sarà proprio quella sulla strada da e per l'aeroporto. Inoltre se prendete in considerazione le statistiche tra vittime e killer, scoprirete che, nella maggior parte dei casi, si conoscono l'un l'altro. Sono membri della stessa tribù. Nella prossima vacanza, dunque, sarebbe opportuno essere molto prudenti andando all'aeroporto con attenzione e, quando effettuate il check-in nell'hotel di una terra esotica, tener d’occhio i membri della vostra tribù. Perché, statisticamente, sono questi i rischi maggiori d’essere uccisi.

Tratto da Faking It in Bangkok, Haven Lake Press, 2012. Per gentile concessione dell’autore.
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Il filo del rasoio

Razor’s Hedge, Introduzione
img008La maggior parte dei consulenti del lavoro consiglia d’introdurre il proprio curriculum con una sintesi professionale. Penso che questa mi descriva piuttosto bene.
Quasi tutta la mia carriera è stata associata al settore militare e della sicurezza. Ho maturato vasta esperienza nazionale e internazionale, trattando con una clientela multinazionale di alto profilo. Ho valide competenze nel campo del management e dell’addestramento e continuo a essere molto coinvolto a livello operativo.
Ciò significa che preferisco passare parte del mio tempo a “fare” sul campo, oltre che a pianificare, organizzare e insegnare agli altri come farlo, per importante che sia.
Ma cosa ho fatto? Ci sono un po’ di domande che ci si potrebbe fare. Sono un mercenario? Sono un consulente per la sicurezza? Sono un private military contractor, un imprenditore militare privato? Sono un free lance, o, come certe volte si usa dire oggi, sono un deniable, uno che può essere sconfessato? Sono un po’ di tutte queste cose, forse? Decidete voi leggendo questa storia. Personalmente non sono così sicuro che la domanda meriti una risposta, o che la risposta sia davvero importante.
Prendete il film I quattro dell’oca selvaggia. E’ un che gode di buona critica, liberamente ispirato alla figura del Comandante “Mad” Mike Hoare e agli eventi accaduti in Congo tra il 1964 e il ‘65. E’ un bel film, di quelli con una “morale”, anche. Il personaggio principale, interpretato da Richard Burton e gli altri protagonisti, maggiori e minori, sono soldati “a nolo”, e per molti più soldi di quanto abbiano guadagnato nella loro carriera nell’esercito regolare. I soldati contro cui Burton e i suoi combattono sono brutali, sanguinari, apparentemente più interessati a servire i loro capi e i loro privilegi piuttosto che il proprio popolo. Burton e i suoi uomini lavorano per salvare un leader democratico. E allora, chi sono i buoni? Chi sono i cattivi?
Combattere a pagamento è male per definizione se lo fai per un altro governo? Ma non è problema se lo fai per il tuo? Il servizio militare regolare è una buona cosa anche se è per una cattiva causa?
Leggendo questo libro, vi renderete conto che non sempre ho seguito il buon senso, nessuno segue sempre il buon senso. Ma mi piace pensare che, almeno per quanto riguarda gli obiettivi, anche se non sempre i metodi per raggiungerli, mi sono comportato in modo etico, o ci ho provato. Una lezione che ho imparato è che il modo etico tende a essere quello più pratico. Il modo duro, per usare un eufemismo, può essere necessario ma bisogna stare molto attenti. Il fine solo raramente giustifica i mezzi. Fare un piccolo male per un grande bene funziona solo raramente.
Chiunque io sia, ho seguito una lunga tradizione.
Probabilmente la prima, vera opera di storia militare è stata l’Anabasi, almeno dopo l'Iliade e l'Odissea. L'Anabasi di Senofonte racconta le avventure, o disavventure, di un’armata di mercenari greci che cercano di tornare a casa dalla Persia. Senofonte e i suoi furono coinvolti e intrappolati nelle trame della politica persiana. Il loro comandante fu tradito e assassinato.
Senofonte fu uno di coloro che si fecero carico di riportare a casa gli uomini. Il ritorno a casa dalla guerra è stato una trama classica sin dall’Odissea. Gli uomini delle caverne, probabilmente, sedevano attorno al fuoco raccontando storie di come erano tornati da qualche avventura…
La tradizione di assoldare soldati è continuata. L’esercito romano impiegava truppe ausiliarie reclutandole direttamente o tramite i capi locali. La maggior parte erano composte da cittadini non-romani residenti nell’impero o da uomini di tribù barbare non ostili. Gli ausiliari furono inizialmente assoldati per svolgere impieghi in cui i soldati romani non eccellevano, come nella cavalleria. Tuttavia i romani molto probabilmente non avevano il concetto della “sconfessione”, almeno nei rapporti con le altre nazioni, Anzi, volevano che tutti fossero ben coscienti del loro potere. Nel Medioevo, in un periodo di transizione tra gli eserciti feudali reclutati dai Signori locali e quelli variamente composti da professionisti e truppe di leva, i re a volte si affidavano ai mercenari quando non potevano permettersi di mantenere un esercito regolare.
Durante la Guerra d'indipendenza americana, entrambe le parti si avvalsero di Nativi Americani per attaccare gli avversari e anche i civili che li sostenevano, spesso in modo brutale. E’ noto che il governo britannico assoldò truppe dal sovrano del regno tedesco dell’Assia, i terribili Assiani. Circa un quarto delle truppe da combattimento britanniche in quella guerra erano Assiani. Non così infami come si dice, a quanto pare, visto che molti di loro rimasero in America dopo la fine della guerra: circa 5.000 su circa 30.000.
Il giovane aristocratico francese, il marchese de Lafayette, finì per comandare le truppe dell'esercito di George Washington. Friedrich Wilhelm von Steuben, un ufficiale prussiano, si presentò affermando di essere stato un generale sotto Federico il Grande. Era un truffatore - non era stato generale, forse nemmeno ufficiale, e il von della nobiltà prussiana era discutibile – ma questo truffatore diede quello che aveva promesso, una formazione professionale per le truppe americane, e contribuì alla nascita degli Stati Uniti.
Le cose sono cambiate dopo la seconda guerra mondiale. Il concetto di “deniability” (di negazione, sconfessione) è sempre esistito, in particolare per le spie e altri agenti segreti. Durante la Guerra Fredda, un paese, specie una grande potenza, non voleva lasciare la “firma” su certe operazioni militari. Ne sono buon esempio le azioni britannico-franco-israeliane che nei primi anni Sessanta riuscirono a bloccare migliaia di soldati egiziani nello Yemen con solo un centinaio d’uomini. Il coinvolgimento americano contro i sovietici in Afghanistan dopo il 1979 fu molto simile. Ma questa volta la terza parte “negata” furono i ribelli afgani e questo è anche un buon esempio della necessità di restare in zona a cose fatte e di controllare coloro che lavorano per voi. Trascurare l'Afghanistan dopo che i sovietici si ritirarono nel 1989 ha lasciato un vuoto di potere ed ha contribuito a creare le premesse per la presa di potere dei talebani. Con tutto quello che ne è seguito, in una complessa situazione che non si è ancora risolta.
La “negabilità” può essere chiaramente definita col dizionario. Nella realtà è truccata secondo le situazioni, senza risposte chiare. È usata in modo tale che coloro che fanno le domande sono confusi e frustrati per la mancanza di progressi nel tentativo di trovare la “verità”.
Il caso “Watergate” è uno dei migliori esempi di negabilità ben noti al pubblico. (Dal punto di vista dell'amministrazione Nixon, la cosa migliore da fare sarebbe stata quella di continuare a negare anziché tramare per insabbiare tutto, quando si sapeva che ogni cosa era registrata). Per molti di voi che fate lavori “normali”, quando certe notizie sono trasmesse in TV, sarà difficile crederci. E probabilmente è un bene che voi realmente non conosciate i “fatti”.
In passato ci sono state occasioni in cui ho sottoscritto un “contratto” con certi clienti ed era sempre ben precisato sin dall’inizio che, se le cose si fossero messe male, io avrei potuto contare solo su me stesso. In altre parole avrebbero negato di aver avuto alcuna parte in ciò che io avevo fatto. Avrebbero addirittura negato che quell’azione fosse mai accaduta. In nessuna circostanza si sarebbero fatti avanti.
Quando per una certa storia finii in tribunale, un ufficiale della polizia federale australiana che stava per rivolgersi alla corte mi disse: «Non prendertela, ma voglio presentarti come un “Walter Mitty”. Se ci credono otterrai una pena più lieve».
(Walter Mitty, personaggio di un racconto di James Thurber, è l’archetipo dell’uomo che fa sogni di gloria ad occhi aperti, mentre in realtà conduce una vita molto banale).
Come si sarebbe scoperto, l'ufficiale aveva ragione. In breve: la negabilità è impressa su entrambi le facce della medaglia, e alla fine le cose dipendono dalla faccia della medaglia in cui ti trovi.
La Private Military Contracting (PMC), l’imprenditoria militare privata, come il normale “settore pubblico” della difesa, richiede comprensione e risposta appropriata al contesto. Richiede comando, controllo e assunzione di responsabilità, anche se non pubblicamente, per i risultati. Richiede di pensare a tutte le conseguenze e, dato che non è possibile prevedere ogni conseguenza, di considerare i quasi inevitabili imprevisti...
Il dibattito sulla PMC sembra ridursi a chi fa meglio il lavoro, mentre dovrebbe essere esteso a chi ha il controllo, come si diceva prima. I governi sono responsabili di controllare che il lavoro sia eseguito, chiunque scelgano per farlo. Il controllo non può essere perfetto. La guerra in Iraq ha prodotto casi in cui le società di PMC hanno passato i limiti e altri in cui lo hanno fatto le truppe della coalizione hanno passato il limite. In difesa di qualunque siano state, o forse saranno, le accuse, solo quelli “sul campo” sanno davvero che cosa è effettivamente accaduto.
È molto probabile che le PMC continuino a esistere, almeno finché ci saranno guerre da combattere e i governi cercheranno la copertura della “negabilità”. Guardate il recente film, pluripremiato con gli Oscar, The Hurt Locker. In una scena, l'unità americana attorno a cui ruota la storia s’imbatte nel deserto in quello che scambiano per un gruppo di arabi. Che poi si rivelano per inglesi, probabilmente contractor. (La mia ipotesi, tuttavia, per come sono presentati nel film e per il loro equipaggiamento, è che si tratti dei ragazzi del “22 Special Air Service”)...
Dobbiamo essere sicuri che le PMC siano usate nel giusto contesto. Che, qualunque sia il compito, rientri nel quadro legale di lavoro sanzionato dal governo. È il governo che deve assumersi la responsabilità ultima per le azioni delle PMC. Quando tutto è stato detto e concordato, allora bisogna lasciarli procedere in ciò che sono addestrati a fare. Il governo deve esserci per controllare, ma senza interferire. Perché il lavoro del governo è assicurarsi che le cose siano fatte nel modo più efficiente ed efficace possibile - che siano i privati o i governativi.
P1060970…Qualcuno potrebbe pensare che io sia fuori di testa. Mi auguro che ci sia qualcuno, là fuori, che sappia leggere tra le righe e capire ciò che sto davvero dicendo.
Alla fine, spero che tutto ciò vi dia la possibilità di mettervi in uno dei luoghi di cui parlo, quando era al suo peggio, e provare a immaginare come riuscireste, non solo a sopravvivere, ma anche a riadattarvi una volta tornati a casa. Prendetevi un po’ di tempo e uscite là, allo scoperto.
Ora basta con la filosofia, viaggiate con me seguendo Razor che se ne va in cerca di se stesso.

Rovine e fantasmi della dolce vita khmer

«In certe vecchie case è meglio non entrare: ci sono i fantasmi». Così dice il colto e raffinato francese che studia le rovine delle ville di Kep, un villaggio sulla costa cambogiana chiuso tra colline coperte da foresta, spiagge orlate di palme e paludi. Le recinzioni non proteggono più nulla. Le mura più nuove e imbiancate circondano spazi vuoti, dove anche i ruderi sono stati demoliti per creare nuovi terreni immobiliari. Tra alte palme, fitti cespugli e canneti, appaiono geometrie inquietanti, slabbrate: una Angkor postmoderna, dove la vegetazione, le radici aeree, i ficus coprono e divorano i muri, incorniciano le orbite delle finestre, compongono disegni metafisici su pareti dove i verdi e i gialli delle muffe penetrano e chiazzano ciò che resta di pitture pastello: azzurri, ocra, qualche fucsia.

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Le tracce di colore, le forme latenti, i frammenti di piastrelle policrome, una scala sospesa nel vuoto come in un quadro metafisico fanno ancora intuire la ricerca architettonica di un tempo.

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Negli anni ’20 Kep era “La Perle de la Côte d’Agathe”, una delle località di soggiorno preferite dell’amministrazione coloniale francese. Dopo l’indipendenza, negli anni ’50 e ’60, il principe
Norodom Sianouk volle farne la Saint-Tropez del Sud-Est Asiatico, mondano ritrovo della nuova élite del Sangkum Reastr Niyum, la “Comunità Popolare Socialista”. Il movimento di Sihanouk combinava elementi di socialismo, nazionalismo, conservatorismo, buddismo e populismo, quasi un’anticipazione delle “dittature illuminate” dell’Asia contemporanea. Eclettismo culturale, come nel modernismo Sangkum della Nuova Architettura Khmer, combinazione dello stile definito all’epoca in Europa da Le Corbusier e della rielaborazione di antiche forme khmer, nel segno di un primitivo funzionalismo per adattarsi a clima e territorio. Ne era Maestro l’architetto cambogiano Vann Molyvann, autore dello stadio di Phnom Penh, che proprio nella provincia di Kep realizzò alcuni dei suoi progetti più interessanti. Altro protagonista di quel movimento era il francese Roger Colne, autore del casinò di Kep.
La Saint Tropez sul Golfo di Thailandia fu canonizzata in uno dei film prodotti, diretti e interpretati dal principe Sihanouk. Kep divenne la vetrina di una nuova Cambogia, colta, ricca, raffinata, apparentemente lontana dalla guerra in Indocina.
Il titolo di quel film,
Crepuscule, anticipa gli anni del buio. Nel marzo 1970 il generale Lon Nol, appoggiato dagli Stati Uniti, depone Sihanouk e la Cambogia entra nel Grande Gioco della guerra. Col risultato di rafforzare il movimento dei khmer rossi. Il 31 maggio di quell’anno l’architetto Colne, mentre viaggia nella provincia di Kep con un gruppo di giornalisti, è ucciso in un’imboscata dai seguaci di Pol Pot. I suoi resti non saranno mai identificati. In Cambogia si materializza l’inferno: la dittatura di Lon Nol, quei “3 anni, 8 mesi, 20 giorni” dell’orrore dei khmer rossi, l’invasione (o la liberazione) vietnamita, la guerra civile.
In quegli anni le ville di Kep sono al centro di combattimenti. In realtà, nonostante i segni di proiettili d’ogni calibro sui muri e i racconti, ormai recitati come copioni dalla gente del posto, gli scontri sono stati limitati. I khmer rossi non hanno distrutto le ville moderniste di Kep con la determinazione applicata alle coloniali. Forse perché quelle architetture dalle linee essenziali in cemento grigio potevano ricordare quelle dell’Unione Sovietica. Forse perché, inconsciamente, ne sentivano lo spirito khmer. Forse perché non le capivano. A ridurle come appaiono oggi è stata “la buona, vecchia tecnica della vampirizzazione”, dice il francese, che ne ha fatto oggetto di studio. Per la popolazione locale erano riserva di materiali d’ogni genere, soprattutto negli anni seguenti la caduta dei khmer rossi, quando la gente continuava a morire di stenti e qualunque cosa poteva fare la differenza tra la vita e la morte.
In quegli anni il casinò è stato prima trasformato in mercato, poi in stalla, poi in stalla e latrina per una microbidonville sorta tutt’attorno. Su quella che era la corniche e più all’interno si susseguono le rovine in un caotico groviglio. Ben più distinti i segni del presente: baracche addossate ai ruderi o sopra ciò che resta del pavimento di un salone d’ingresso, mucche che si abbeverano nelle pozze formate dalle cisterne d’acqua accanto a ciò che s’intuisce doveva essere una sala da bagno. Uno dei pochi palazzi ancora integri nella struttura è quello della madre di Sihanouk, la principessa Sisowath Kossamak Nearireath. Oggi è un’attrazione turistica. L’ingresso costa un dollaro, riscosso dal guardiano che ostenta una specie di divisa militare e racconta che il palazzo nel 1982 fu al centro di una battaglia tra vietnamiti e khmer rossi. Spesso ci s’incontra il signor Oeu, guida locale. Racconta che da bambino viveva nelle vicinanze e vedeva giocare i figli di Sianouk, senza osare avvicinarsi. Oltre le mura, la casa è sventrata: resta solo un’elegante e ardita scala elicoidale che sale al primo piano. Dal terrazzo si vede il lunghissimo molo di cemento dove la principessa madre s’imbarcava per le gite nelle isole al largo di Kep. La parte posteriore della casa è semidistrutta, della cucina resta solo un muro annerito dai fuochi accesi per cucinare: la funzione del luogo è la stessa, sono cambiati i modi e i mezzi.
«Sembra che questi palazzi stiano piangendo», dice il francese. È di questo dolore che si alimentano i fantasmi di coloro che abitavano quelle ville. Nel mondo magico khmer gli arb, i fantasmi, sono una presenza immanente alla natura. Si manifestano di notte, quando vanno in caccia d’esseri umani per succhiarne il sangue o divorarli. Nella loro metamorfosi in porta d’accesso a un mondo occulto, le rovine di Kep, come quelle di Angkor, divengono quella macchina spazio-temporale descritta dall’antropologo francese Marc Augé nel saggio
Rovine e Macerie.
Fanno intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia. Un tempo puro, non databile, assente dal nostro mondo d’immagini, simulacri e ricostruzioni, dal nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. “Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia e il tempo puro, il tempo in rovina, le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto”.
Un tempo perduto che si ricrea parlandone e parlando del senso della vita in riva al mare, di fronte al
Knai Bang Chatt, boutique hotel edificato sulle rovine di una villa realizzata nei ’70 da un allievo di Le Corbusier. Non succede per il restauro, preciso, ma per l’idea che sottintende di lusso ed escapismo, dimensione mentale dove continuiamo a cercare rifugio.
«Se vuoi morire guardando il mare, allora guarda la foresta», dice il proprietario dell’albergo. A Kep è feroce la volontà di sfuggire ai fantasmi.

Bangkok Noir

Dietro il sorriso thailandese e il wai eseguito con grazia, poco oltre, si apre un altro scenario: la geografia dei conflitti, rancori personali, rabbia, vendetta, la sparizione e la violenza. Dove “perdere la faccia”, rivalità personali e lotte di potere hanno spesso conseguenze fatali. La possibilità di un pericolo, come un battito cardiaco irregolare, è imprevedibile. La maggior parte del tempo il pericolo non si vede, non ci si pensa. Ma quando all'improvviso esplode, la vittima cade con violenza e non si rialza.
Scivolare dalla superficie luminosa del giorno di Bangkok al mondo aspro del noir, spesso sembra un passaggio di anni luce. La superficie è liscia, piacevole e divertente – è
sanuk. Ma se scavi più a fondo sotto il livello del sanuk, il paradiso tropicale rivela una ben più fredda, umida oscurità di anime perdute - anime arenate, abbattute e alienate. Gli scrittori spesso sono tra i primi a dare un calcio a questa pietra scura, e i loro lettori guardano i ragni, gli scorpioni e gli scarafaggi che ne schizzano fuori in tutte le direzioni.
La dozzina di autori di
Bangkok Noir dà un calcio comune a quella pietra che pesa sul cuore della Città degli Angeli. Macchie di noir appaiono sullo schermo radar di Bangkok come dirigibili sgonfi. I membri delle associazioni di volontariato locali che vanno in giro coi loro furgoni per la raccolta dei morti e dei feriti sono chiamati “ladri di cadaveri”, come quelli che una volta vendevano i corpi ai laboratori. I giornali annunciano le ultime disposizioni ufficiali, appena applicate per gli orari di chiusura dei bar, le cliniche degli aborti, i ladri d'auto, le bande armate, le lotterie clandestine, chi guida troppo veloce. Mentre le voci diffuse sui social network parlano di estorsioni non ufficiali. L’arte entra in questi spazi oscuri dell'attività umana. Già nel 2011 dovrebbero girare un film horror sul tempio obitorio: 2002 Ghosts Baby. Il noir a Bangkok va veloce. Il tema del noir è spesso ripreso dalle ultime notizie del Bangkok Post e The Nation. E naturalmente incombe la storia noir dei colpi di stato del passato prossimo, che proietta una lunga ombra scura e alimenta la paura di colpi di stato futuri.
La potenziale lista di soggetti è lunga, ma i racconti di questa raccolta daranno di più di qualche scorcio nel mondo noir thai. L'idea dello sport nazionale, la Muay Thai - una combinazione di danza, boxe, calci e ginocchiate - è puro noir. Questa è l'idea del
sanuk condito di lividi e sangue. La Muay Thai può essere più simile all’assassinio che alla boxe. Qualunque cosa sia (o non sia), la Muay Thai è lo sport del noir. Tra antichi rituali e musica, i combattenti si esibiscono di fronte a una folla di scommettitori avvolta nel fumo, dove si trovano fianco a fianco gangster, truffatori, trafficanti illegali, proprietari di bar, poliziotti e funzionari corrotti, con catene d’oro e amuleti al collo. Quel tipo d’uomini che conoscono il compleanno di tutti gli altri e sanno che cosa si aspettano in quella data per mantenere sempre le ruote ben unte. Uomini e donne che sanno chi vincerà prima che il combattimento abbia inizio.
Non c'è accordo sulla definizione di “noir” che vada bene per tutte le culture. Gli scrittori non accettano una certa versione di noir, mentre fotografi e pittori traducono il noir nella loro immagine delle tenebre. Lentamente, nel corso degli ultimi dieci anni, a Bangkok è emersa un'idea generale di noir. Durante questo periodo il movimento artistico noir è cresciuto tra gli stranieri e i thailandesi.
BangkokNoirRalf Tooten, un fotografo pluripremiato, ha catturato la Bangkok noir nelle sue immagini (di cui una illustra la copertina di questo libro).
Asoke_Corner_Beer_BarIl pittore Chris Coles ha ritratto le facce di uomini e donne che si muovono nel sottobosco di Bangkok. Gli autori rappresentati in quest’antologia, stranieri e thai, hanno dato il loro contributo con storie dalle scene forti, facendo fare al movimento del Bangkok noir un altro passo avanti. Thai e stranieri vivono assieme dentro il mondo del noir e queste storie registrano le loro esperienze del lato oscuro di Bangkok.
Bangkok Noir comprende dodici racconti di autori professionisti che si sono guadagnati reputazione internazionale per i loro testi sulla vita in Asia. Non tutti gli scrittori di questa collezione sono autori di romanzi gialli o anche, in generale, di narrativa. Ciò che li accomuna è la loro conoscenza di Bangkok, la loro profonda comprensione culturale e il loro amore per il raccontare. Come gruppo sono autori professionisti i cui libri sono pubblicati in molti paesi e lingue. Nelle loro storie, troverete una diversità di voci e di percezioni del nero, come diversi stili, forme, caratteri e toni, ma tutte sono ugualmente sentite, approfondite e in tutte troverete stimoli di riflessione. Questo libro è speciale anche per un altro motivo: è la prima volta che scrittori professionisti stranieri e thai hanno confrontato le loro visioni di Bangkok in un’unica opera.
Ho aperto questa introduzione con un commento sull'ambiguità del concetto di noir. Vale la pena stabilire alcuni elementi di base. "Noir" è la parola francese per nero o scuro. I francesi hanno utilizzato il termine per definire certi film dai toni cupi, con personaggi che appaiono condannati da un destino cinico e baro. Adottato anni fa da critici e autori anglosassoni, in inglese il termine “noir” è stato usato per definire una specifica categoria del romanzo poliziesco. Autori americani come Thompson, Willeford, Goodis e Caine si sono affermati vendendo una visione della vita desolata, nichilista. La nozione contemporanea di noir, riconducibile all'idea originale francese, si basa su uno spazio esistenziale dove i personaggi si ritrovano coinvolti senza possibilità di redenzione. La narrativa noir descrive un mondo in cui il destino delle persone è segnato da un karma più grande e potente, da cui, nonostante tutti gli sforzi, non riescono a liberarsi. I racconti di questa raccolta rientrano nella tradizione degli autori noir del passato, che sono stati maestri nell’accompagnare i loro personaggi al patibolo, stringerli il cappio attorno al collo e far scattare la botola sotto i loro piedi.
Ciò che gli occidentali chiamano una visione fatalistica della vita, in Asia si trasforma spesso nell’idea del karma. Tutte le buone e le cattive azioni di una vita passata si pagano per le strade, nei bar e nei vicoli di questa vita: non resta molto spazio per il libero arbitrio all’interno del concetto di un universo in cui i debiti si saldano in una prossima incarnazione.
Con quest’antologia, un gruppo di autori, noti per i loro scritti sulla Thailandia, ha impegnato il proprio talento creativo anche per dimostrare che il noir non ha confini geografici. Se il noir sembra perdere vitalità in Occidente, in Thailandia ha tutta l'energia e il coraggio di un ragazzo proveniente dalle regioni del nord-est che crede che i tatuaggi Khmer sul suo corpo possano fermare i proiettili. I racconti noir, come un buon
som tam, hanno bisogno della giusta quantità di peperoncini rossi per stimolare i centri del dolore e del piacere, e quando uno scrittore noir è a corto di peperoncino, può sempre aggiungere una Signora Thai (che può anche rivelarsi un fantasma), sapendo che può condurre qualunque uomo alla rovina col lampo del suo sorriso.
Che cos’è che rende diverso da Bangkok Noir, dal noir, tanto per dire, americano, inglese o canadese? Non c’è una risposta facile. Ma a voler andare a fondo, come una coltellata al cuore della tenebra noir, viene fuori che, mentre molti thai hanno assorbito gli aspetti materialistici della moderna vita occidentale, la linfa spirituale e sacra che sgorga dei miti, dalle leggende e dalle consuetudini thai, non è contaminata dalla struttura mitologica importata dall’Occidente. Nella tensione tra l’esibizione di ori, gioielli, auto di lusso, viaggi all'estero e vestiti griffati, e il sistema di credenze latenti. si determina un'atmosfera in cui gli uomini sono divisi tra poli opposti. Mi piace pensare al noir come sottoprodotto delle contraddizioni e delusioni che condannano le persone a vivere senza speranza di risolvere quelle stesse contraddizioni. Non importa quanto duramente si lotti, non potranno mai liberarsi.
Passeggiate a tarda notte in certi quartieri poveri di Bangkok. Ascoltate i cani che popolano i
soi ululare come i fantasmi arrabbiati che si scatenano nella notte, e scoprirete che nessun prodotto del moderno consumo trattiene i suoi proprietari dal fare offerte agli spiriti. Negli slum la vita è breve e costa poco, ed è una vita dura, piena d’incertezze e dubbi. Ma il noir non riguarda solo i poveri o i diseredati. I ricchi abitano nei loro costosi condomini e guidano le loro auto di lusso, rifugiandosi all'interno dei circoli esclusivi del potere, ma anch'essi , come i poveri, possono vedere il loro mondo sconvolto da un caso del destino, che li spoglia di ogni sicurezza e li espone al terrore e alla perdita.
Nessuno riesce a dare una definizione di "noir" che soddisfi tutti. Critici e scrittori cercano di distinguere la narrativa hard-boiled dalla fiction noir. Spogliala da tutti questi orpelli e arrivi a una semplice constatazione: la differenza tra hard-boiled e noir è la differenza tra emorroidi e cancro. Le storie hard-boiled possono essere sgradevoli da leggere, ma si sa che alla fine, in qualche modo, c’è la possibilità di una speranza (il noir non ammette equivoci). Il Noir è nero esattamente come una certa morte è nera. Nessuna redenzione, nessuna speranza, nessuna luce alla fine del tunnel.
I duri, i giocatori, i perdenti, le anime tormentate e perdute, tutti appaiono in
Bangkok Noir. Ma il cuore di Bangkok Noir è il dubbio esistenziale che tormenta i personaggi. Molti di loro sono espatriati arenati come balene pilota sulla riva, sperando che qualcuno stia per salvarli. Invece sono rovesciati, fatti a pezzi e trattati come un'altra parte della catena alimentare. Il calore, la corruzione, le menzogne e il doppio gioco, i bar e gli alberghi a ore, cospirano a cullare, intrappolare, accerchiare ed eliminare chi tradisce il sistema.
A Bangkok c'è una vecchia pista che attraversa un folto di casi storici noir raccontati da vecchi narratori thai. Libri e show televisivi hanno creato una mini-industria che ha per protagonista See Ouey, il cannibale sino-thai giustiziato negli anni ‘50 per l'omicidio di una mezza dozzina di bambini piccoli. Il suo cadavere conservato è esibito come una macabra creatura aliena all'interno di una teca trasparente in una sala del Museo Forense. Un'altra celebrità noir è il Jim Thompson dal fato avverso, non lo scrittore noir, ma l’americano (che si dice fosse un agente della Cia) che ha reintrodotto la manifattura della seta in Thailandia e che è misteriosamente scomparso in una passeggiata nella giungla malese. Il suo corpo non è stato mai trovato.
Questa antologia di racconti contemporanei tesse una trama d’intrigo e di mistero dove i vivi e i morti occupano lo stesso spazio. Avvocati e poliziotti corrotti, transessuali, amanti, assassini e fantasmi vi accompagnano in un tour che v’introduce nello spazio dove thai e stranieri lavorano, vivono, giocano e muoiono insieme. Il solo mistero che non è stato svelato dagli scrittori di questa raccolta è perché c’è voluto tanto tempo prima che fosse pubblicato un libro come
Bangkok Noir.

Da: “bangkok noir”a cura di Christopher G. Moore. Pubblicato per gentile concessione della Haven Lake Press.

La boxe birmana

«Da quando faccio l’allenatore ci sono stati cinque morti»
«Da quando fai l’allenatore?»
«Da tre anni».
U Kyaw Win fa l’allenatore al Myanma Traditional Boxing Club, una baracca adattata a palestra alla periferia di Yangon, la capitale del Myanmar, il paese che era conosciuto come Birmania. Se si calcola che gli incontri si svolgono una volta al mese, che non si disputano durante la stagione delle piogge, da maggio a ottobre, e che molti combattenti abbandonano per le ferite dopo il primo incontro, si ha un’idea della violenza della myanma let-hwei, la boxe birmana.
Molto simile alla più famosa muay thai, la boxe thailandese, come quella risale a circa 2300 anni fa, all’epoca delle migrazioni verso sud dei popoli provenienti dal sud della Cina. Costretti ad affrontare etnie ostili sul loro cammino, elaborarono una forma di combattimento che utilizzava come mezzo d’offesa e difesa ogni parte del corpo: i piedi, i denti, i pugni, le ginocchia, i gomiti, la testa. Di generazione in generazione la muay thai fu elaborata e modificata e oggi ha perduto le componenti estreme per enfatizzare gli aspetti sportivi. Quella birmana, invece, ha mantenuto molte delle caratteristiche tribali, feroci. Si combatte a mani nude e sono ammessi quasi tutti i colpi, su quasi tutti i bersagli, a eccezione di occhi e testicoli. Si può usare la testa e si può sferrare un calcio volante al collo. I colpi più violenti e pericolosi sono quelli di ginocchio al viso, afferrando l’avversario alla nuca, e quelli di gomito alla gola, in faccia o sulle vertebre cervicali superiori. I pugni sono considerati la mossa meno efficace, mentre i calci alle gambe sono utilizzati soprattutto per fiaccare la resistenza dell’avversario. “Un combattente che non sta in piedi non combatte più” dicono.
La maggior parte degli incontri si svolge durante le paya pwe, le feste delle pagode, su un ring improvvisato di terra battuta. Non c’è limite di tempo, non si fanno distinzioni di peso ed età e spesso gli avversari si sfidano per risolvere questioni personali. Non è prevista assistenza medica, ma c’è sempre un sacerdote dei Nat, gli Spiriti che sovrintendono a ogni attività umana e manifestazione della natura. Più codificati i combattimenti nazionali, specie quelli nel parco attorno al Kan Daw Gyi, il lago di Yangon, all’ombra della pagoda Shwedagon. Si combatte su un ring quadrato di 5.8 metri per 5.5. L’incontro è suddiviso in 5 round da 3 minuti ed entro i primi 4 si può chiedere una pausa. I pugili devono essere più o meno della stessa categoria e c’è qualcuno in grado di prestare i primi soccorsi.
I combattimenti si concludono quasi sempre alla pari o per ko. Anche quelli che, secondo gli regole occidentali o della muay thai, vedrebbero assegnata una vittoria ai punti.
«Non importa se ne prendi tante. Quello che conta è il coraggio, la resistenza, la capacità di sopportare il dolore» spiega U Kyaw Win. Al contrario «chi ha paura e sfugge al combattimento, dopo tre richiami è dichiarato sconfitto».
Il coraggio e il dolore rappresentano anche l’unica possibilità di guadagno. Non ci sono borse in palio, i pugili devono conquistarsi le offerte degli spettatori, che così premiano i migliori e incoraggiano l’uomo su cui hanno puntato. E’ per dimostrare indifferenza al dolore e coraggio che molti sfidano l’avversario avanzando a mani aperte, sollevando le braccia per offrirsi ai colpi. E’ per richiedere la forza di superare il dolore e affrontare i colpi, che si sono tatuati le gambe e il petto con formule propiziatorie e che prima dell’incontro rendono omaggio a Khun Tho e Khun Co, i Nat della myanma let-hwei.

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PPlaces_iconIl reportage fotografico di questa storia è uno dei contenuti dell’applicazione Pad Places. Nel sito trovate tutte le indicazioni sui contenuti. Per scaricarla da itunes clicca qui.

Le città dell'Apocalisse

Il termine “post-traumatico” si riferisce all’evidenza delle conseguenze, a quel che resta di ciò che è andato perduto dopo il trauma. Gli spazi attorno a questo punto cieco registrano l’impressione di quell’evento come una cicatrice.
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Come può un sistema dare il senso di un’esperienza che eccede la sua capacità di assimilarla?
Dato che la ricognizione è sempre e solo retroattiva, il processo di assimilazione dell’evento, del dargli un senso, comincia quando s’inizia ad analizzare le prove, nel tentativo di costruire una storia plausibile, comporre una scena e sviluppare le coordinate di un nuovo paesaggio esperienziale.
Poco a poco, la ripetizione di questi tentativi comincia a tessere una trama di base e nuovi futuri si sovrappongono a quelli vecchi.
Il trauma è il dramma in cui sia la storia sia il futuro sono in gioco, mantenuti in una crisi sospesa: le carte sono state gettate in aria, ma non sono ancora ricadute. Il trauma segna il punto in cui il sistema deve reinventarsi o perire. Un altro termine può essere introdotto per valutare le possibilità di azione in questo contesto: “resilienza”
Se i due poli rappresentati da continuità/ripetizione e discontinuità/trauma formano due tendenze asintotiche (si avvicinano indefinitamente senza mai coincidere), la resilienza descrive la capacità di muoversi tra di loro. La resilienza è la capacità di un sistema di riprendere le sue caratteristiche dopo aver assorbito degli urti. Il recupero, però, non è mai un semplice ritorno allo stato precedente di ripetizione periodica. Dopo aver assorbito un urto, il sistema resiliente esplora e percorre in modo creativo nuove forme di stabilità. A questo punto una qualche forma di continuità è fondamentale (dobbiamo ribadire la nostra distanza dall'idea di una tabula rasa). Resilienza non è mai un ritorno, ma neppure segna una totale rottura: se salta oltre il momento dell’interruzione, porta con sé la continuità di una carica storica che le conferisce forza adattativa.
Siamo ora in grado di dare una risposta provvisoria alla questione posta in precedenza: come questi nuovi problemi avrebbero trasformato l’urbanistica coniugandola col termine trauma?
Per cominciare, ciò dovrebbe implicare un approfondimento del discorso circa un design incentrato sull’ottimizzazione con idee che siano tarate per le crisi, come l'adattamento e la resilienza.
Una città resiliente è una città che si è evoluta in un ambiente instabile e si è adattata per confrontarsi con l'incertezza. In genere tali adattamenti assumono la forma di allentamento e di ridondanza nelle sue reti. Diversità e distribuzione, siano esse territoriali, economiche, sociali o infrastrutturali, saranno valutate di più rispetto all’efficienza centralizzata. La città post-traumatica sfida tutte le teorie cibernetiche del flusso d’informazioni e della programmazione poiché sostiene che questi apparati di conoscenza e di calcolo implicano sempre la coesistenza di punti ciechi, in particolare per l'arrogante applicazione di metodi quantitativi in una sfera qualitativa.
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Quattro amici al bar

Un estratto dal quarto capitolo del libro di Ron Chepesiuk: “Sergeant Smack:The Legendary Lives and Times of Ike Atkinson, Kingpin, and His Band of Brothers”.
Per gentile concessione della Strategic Media Inc.
E’ una scena minore di una storia molto più complessa. Ma è uno scorcio sulla vita che animava la Bangkok di quegli anni.
Vi compaiono alcuni personaggi chiave di tutta la vicenda. William Herman Jackson, il Jack del bar, ex commilitone di Atkinson, suo complice d’affari nonché l’uomo che lo convinse a spostare il centro dell’attività a Bangkok. James Warren Smedley, altro ex militare, al tempo stesso manager del bar di Jack e importante membro della gang di Ike. Ultimo ma non meno importante (anzi) Luchai "Chai" Ruviwat, uomo d’affari sino-thai. Appare spesso come una figura in ombra, alcuni l’hanno definito “un fantasma”, ma sembra fosse l’uomo che aveva reso possibile il traffico d’eroina tra il Triangolo d’Oro e Bangkok. Qui, in fondo, appaiono come “quattro amici al bar”.

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La scena dell’intrattenimento di Bangkok rifletteva la situazione di tensione razziale in America e in Vietnam del tempo. Bianchi e Neri tendevano a metter le tende in quei bar la cui clientela era composta in prevalenza dalla loro stessa gente. «La segregazione che si stabiliva nei bar era determinata soprattutto dalla musica» ha ricordato Pete Davis, ex agente della DEA Nero che era stato assegnato alla sede di Bangkok nel 1971. «Se volevi sentire musica country andavi in un certo locale, per la musica soul in un altro. Se eri un Nero e volevi andare in un locale dove facevano country anche le stesse ragazze erano scostanti. Ti guardavano come per dirti ‘che ci fai TU QUI ?’”.

La segregazione innescava inevitabilmente tensioni razziali, specie riguardo le donne thailandesi. «Molti Thai consideravano una donna thailandese che usciva con un soldato americano, Nero o Bianco che fosse, come una puttana» ha detto Steve Jarrell, ex aviatore americano di stanza nella base di Utapao tra la fine dei ‘60 e primi anni ‘70. «Ma le stesse donne thai che andavano con soldato Bianco storcevano il naso quando vedevano altre ragazze Thai con i Neri. E viceversa. E così si era stabilita una forma di segregazione tra le donne Thai come tra i soldati americani».

A Bangkok i bar riservati esclusivamente ai soldati Neri erano pochi. “Soul Sister” era un grande spazio con una band dal vivo e un coffee-shop al piano superiore. Anche il “Whiskey Jazz” era a due piani, ma più piccolo. Il “La Fee’s” era diventato uno dei posti più frequentati, tanto che spesso i clienti avevano l’impressione di trovarsi in una scatola di sardine.

Jack e Chai, quindi, pensarono che un locale per Neri poteva essere un buon affare, ristrutturarono un edificio in Petchaburi Road e ci aprirono un bar nel giugno 1967. Per gratificare l’ego di Jake lo chiamarono Jack's American Star Bar. Sia Ike che Jimmy Smedley parteciparono come soci e ognuno dei quattro uomini investì nell’impresa 8000 dollari. Ike preferì restare un socio di capitale, mentre Jimmy decise di impegnarsi personalmente come manager. Una buona scelta, nonostante l’eccessiva passione per l’alcol, perché tutti lo vedevano come il classico veterano americano sempre pronto a far baldoria.

Peter Finucane, giornalista del quotidiano Bangkok Post dal 1967, descrive Smedley come un uomo simpatico, con una spalla sbilenca e con una faccia butterata su cui era stampato un perenne sorriso che l’aveva segnata da rughe d’espressione. «Jimmy si sedeva al bar di fronte alla porta per osservare tutti quelli che entravano» ha ricordato Finucane. «Aveva sempre un drink in mano e nessuno riusciva a capire che miscuglio fosse e chiunque glielo chiedesse lui non rispondeva. Era come un documento militare classificato segreto».

Finucane e John McBeth, suo amico e collega, erano due dei pochissimi Bianchi che frequentavano il bar. «Certe volte ci sentivamo un po’ a disagio e gli occhi puntati addosso» ha detto Mc Beth «Ma Jimmy si prendeva cura di noi e ci faceva sedere al bar. Era un tipo che teneva sotto controllo tutto quello che succedeva al Jack». Smedley confessava a tutti quelli che incontrava che, con l’apertura del Jack’s American Star Bar, aveva trovato un buon posto per vivere. Per nessuna ragione avrebbe voluto tornare a Saigon e riprendere a trafficare nel cambio di dollari e MPC (i Military Payment Certificates, certificati di pagamento militari).

Mentre Smedley si divertiva a intrattenere i clienti, Luchai si occupava di prevenire possibili guai e di scegliere le ragazze. Per legge in qualunque accordo commerciale bisognava avere un partner Thai. Questi, come nel caso di Chai, s’incaricava anche di tenere i contatti locali e serviva da intermediario nel caso gli altri soci avessero avuto qualche problema con le autorità…

Per Ike, sia i soldi investiti nel locale sia quelli che ci guadagnava erano spiccioli, dato che allora la truffa che aveva organizzato colcambio degli MPC andava a gonfie vele. Ma il fatto di essere socio del Jack gli dava un motivo legale – una copertura se preferite – per stare a Bangkok…

Per entrare al Jack’s American Star Bar i clienti dovevano varcare una pesante porta d’ingresso cigolante decorata con una grande stella rossa sulla destra. Al piano terra del bar c’era una pista da ballo dove le ragazze thai, alcune delle quali esibivano elaborate acconciature afro, ballavano con i clienti Neri al suono di musiche funky come i popolari motivi di “Funky Chichen”, “Rubber Legs” e “Mechanical Man”. Ogni tanto qualcuno si alzava in piedi e si metteva a cantare, se ne aveva voglia e coraggio. «Una delle cose più divertenti che ho visto al Jack è stato un piccoletto thai che avrà pesato 45 chili che cantava ‘Hot Pants’ di James Brown» ha ricordato Davis. «Gridava ‘Hot Pants!’ come fosse un annuncio e poi urlava ‘Yeow!’, cercando di imitare Brown».

Al secondo piano c’era un ristorante dove servivano il miglior cibo soul a est di Harlem. Un cliente poteva ingozzarsi di costine al barbecue, braciole di maiale, coda di maiale, zampetti e orecchie di maiale, interiora, pollo fritto, piselli dagli occhi neri e cavoli verdi sino alle prime ore del mattino. Smedley si vantava: «Serviamo tutto del maiale: dalla coda alle orecchie».

I clienti potevano bere sino a sbronzarsi con i liquori acquistati nei magazzini del locale U.S. Army PX (il Post Exchange dell’esercito USA, una specie di grande magazzino). Come ex militari Ike, Jack e Smedley potevano comprarli in quantità e a basso costo, evitando anche le tasse thai sugli alcolici. Nello stesso PX compravano sigarette e generi alimentari scontati. Per quanto riguardava le ragazze non c’erano problemi a reclutare giovani thai e convincerle anche a entrare in un’organizzazione di spionaggio interna, facendosi riferire tutto quello che le dicevano i soldati che andavano con loro.

La Ballata di Esmeralda

Una decina d’anni fa, all’uscita di un albergo di Santiago del Cile, un vecchio mi chiese se volevo acquistare il modellino di una nave. Era un bello schooner a quattro alberi, dalla linea slanciata. Tutto bianco. «Si chiama Esmeralda. Per noi era la Bianca Signora» disse il vecchio, vantandosi di aver fatto parte dell’equipaggio. La acquistai per poche decine di dollari. E me la portai dietro per mesi sino in Patagonia. «Sono in viaggio con Esmeralda» dicevo compiaciuto.
Tornato in Italia la ormeggiai tra i libri. Poi, traslocato in un appartamento molto più piccolo, fui costretto a riporla in una specie di gavone sotto il letto. Pensando che prima o poi avrebbe potuto rispiegare le vele in una degna collocazione. L’ennesimo trasloco condusse me ed Esmeralda nella casa di un altro vecchio marinaio. Che da marinaio vecchio, per trascorrere il tempo si mise a cercare la storia di Esmeralda.
E purtroppo la trovò.
Esmeralda, nave scuola della marina militare cilena, prese servizio nel 1954 e dal 1973 al 1980, durante gli anni della dittatura del generale Augusto Pinochet, fu impiegata anche come prigione e centro di tortura. Secondo i rapporti di Amnesty International, del Senato Usa e della Commissione Cilena per la Verità e la Riconciliazione, almeno un centinaio di persone sono state vittime delle crociere della morte. E’ la storia che hanno definito “il lato oscuro della Bianca Signora”.
Adesso la Esmeralda continua a solcare i mari come nave scuola. Partecipa a regate e manifestazioni. Spesso ammirata. Spesso contestata, simbolo dell’impunità di cui ancora godono molti criminali del regime di Pinochet.
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Dopo quella scoperta non sapevo che fare della mia Esmeralda. Mi appariva come la materializzazione del veliero de La Ballata del Vecchio Marinaio di Samuel T. Coleridge, simbolo di paura e maledizione.
Mi chiedevo chi fosse e che cosa avesse fatto il vecchio marinaio che mi aveva venduto il modellino. Mi veniva il dubbio che il male potesse trasmettersi come un’infezione: da uomini a navi, da navi a uomini, da uomini a modelli di navi. Alla fine c’ero io.
Pensai di tenerla, come personale oggetto di meditazione, segno dell’attenzione che bisognerebbe porre in ogni azione, della vitale curiosità che dovrebbe indurci a ricercare il significato nascosto di ogni cosa.
Fui tentato di distruggerla, come atto di esorcismo contro il possibile male che essa racchiudesse.
Decisi di abbandonarla in mare. Portandola a nuoto il più al largo possibile. Così, almeno, avrei compiuto un sia pur minimo gesto d’espiazione, un piccolo rito in onore dei morti. In tal modo avrei comunque rispettato lo spirito della nave, destinata al mare, purificandola dal male di cui era stata teatro e l’aveva contaminata.
L’ho abbandonata in mare. In un bel mattino di settembre, quando l’acqua era ancora calda, ma soffiava un vento teso di grecale che sollevava onde di 70, 80 centimetri che si frangevano lungo una barriera di scogli a una trentina di metri dalla costa. Ho nuotato oltre quegli scogli, sono andato ancora avanti, tenendo Esmeralda con una mano in modo che navigasse dritta davanti a me. Poi, quando ho avuto la percezione d’essere al largo, l’ho lasciata. Si è rovesciata sulla fiancata sinistra, mostrando la chiglia verde, di un tono un po’ più scuro dell’acqua. Era ancora bella, sembrava quasi adagiata sul mare. L’ho guardata allontanarsi da me rapidamente, spinta dalla corrente. Mi sono girato e ho cominciato a nuotare a bracciate più forti del mio ritmo abituale, tenendo la testa sott’acqua, cercando d’immaginare il fondo e i suoi fantasmi. Quando mi sono fermato, era scomparsa alla vista: lo sguardo non andava oltre la cresta dell’onda più vicina.
Appena messo piede a terra si è avvicinato un bambino. «Dov’è la tua nave?» mi ha chiesto.
«L’ho lasciata andare».
«Perché?».
«Perché era una nave cattiva».
«Ma le navi cattive sono nere e col teschio. Questa era bianca».
«Era cattiva lo stesso».
Ho pensato che non potevo spiegare a un bambino che mi parlava di Capitan Uncino il senso del karma, dell’equilibrio cosmico. Poi mi sono chiesto se riuscivo a spiegarmelo io. Se, in fondo, Esmeralda fosse innocente e non avessi voluto far scomparire con lei qualcosa che è dentro di me, come se l’Io fosse solubile nell’acqua di mare.
Ad aspettarmi su una piattaforma panoramica sopra la costa c’era il vecchio marinaio che mi aveva fatto scoprire la storia di Esmeralda. Dall’alto aveva seguito la sua deriva e l’aveva vista infrangersi su uno scoglio. Ho ricercato la posizione esatta del suo affondamento: 43°37’05.01” N e 13°32’02.73” E.
Prima o poi, magari tra qualche mese, quando l’acqua sarà più fredda e il mare più calmo, dovrò immergermi a cercarla. Forse troverò risposta alle voci che inquietano il Vecchio Marinaio della Ballata di Cooleridge:
“Ma dimmi, dimmi ancora,
la tua dolce risposta reiterando –
che cos’è che muove così lesta questa prora?
Il mare, dimmi che fa?”.
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I Mastini della Guerra

“Chiunque si trovi sul lato sbagliato dei sessant’anni e creda di poter fare qualcosa di buono andando in guerra a bordo di un elicottero da combattimento in uno dei più remoti angoli del pianeta o è un tantino pazzo oppure si fa le canne”scrive Al J. Venter, aggiungendo subito che, nel suo caso, non vale nessuna delle due condizioni. Lui è un reporter di guerra. Per la precisione un documentarista, un saggista, un esperto di strategie militari. Di guerre ne ha seguite moltissime, da molto prima di superare i sessanta, soprattutto in Africa e soprattutto a fianco di quelli che un suo vecchio collega, Frederick Forsyth, ha definito i Mastini della Guerra, i mercenari. Il brano che segue è tratto da un libro di Vender con questo titolo: War Dog. L’episodio si riferisce all’estate del 2000, quando Al era embedded tra i mercenari della Executive Outcomes che combattevano contro i ribelli che volevano rovesciare il governo del Sierra Leone. Volava in un elicottero russo Mi-24 pilotato da Neal Ellis, per gli amici Nellis.
Alcuni dicono che quella fosse una guerra “giusta”. Ma qui non si tratta di ciò. Qui, ancora una volta, si tratta di giornalisti che fanno rivivere il mestiere dei narratori ambulanti. Di quelli che ti fanno venire voglia di continuare. Anche se sei nel lato sbagliato dei Sessanta.

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Nellis si girò verso di me. “Hai portato l’acqua?”, mi chiese, mentre studiava una mappa sul cruscotto. Non mi diede il tempo di rispondere.
“Qualcosa da mangiare?”.
“Staremo fuori tanto a lungo?” chiesi.
“No, ma avrai bisogno di cibo nel caso che ci tirano giù”
“Tutto quello che ho è una scatoletta di carne”.
Non rispose.
L’equipaggio regolare viaggiava leggero. Nella maggior parte delle missioni non avevano portato altro che qualche bottiglia d’acqua, che era stata più che sufficiente per poche ore di volo. In un modo o nell’altro erano convinti che sarebbero tornati. Ma questo capita a ogni equipaggio aereo in quasi tutte le guerre.
Io ero un tantino più scettico. Dal primo giorno non ero mai salito a bordo senza una manciata di pastiglie per depurare l’acqua e la mia preziosa mappa stradale della Sierra Leone pubblicata dalla Shell Petroleum. Si diceva che era utilizzata anche dai ribelli nei loro spostamenti. Se le cose si fossero messe male, almeno avrei saputo come arrivare in Guinea.
“Armi personali ?” chiese Nellis agli uomini a bordo con aria di studiata noncuranza. Ogni membro dell’equipaggio aveva un AK-47 come dotazione standard. Per “fortuna” uno di loro aveva caricato una piccola, compatta mitraglietta ceca 9mm. Una volta smontata potrebbe stare nel vano portaoggetti dell’auto.
La sera prima, Hassan mi aveva informato su come comportarsi in caso di problemi. Qualunque cosa accadesse, mi aveva avvertito, avevamo sufficiente potenza di fuoco per trovare una via d’uscita da qualunque casino. Il problema era che i GMPG (general purpose machine gun, mitragliatori a multi-impiego) che avevamo caricato a bordo, accatastati sotto i sedili del compartimento principale dietro la cabina di guida, erano relativamente pesanti per questo genere di situazioni. Senza contare che i caricatori erano contenuti in stupide casse di legno a spigoli vivi, che si sarebbero rivelate un bagaglio molto difficile da trasportare se avessimo dovuto muoverci velocemente per uscire in fretta a una situazione pericolosa.
“Se succede qualcosa, devi dare una mano anche tu. Combattere”, mi aveva detto l’artigliere libanese con un sorrisetto ironico. In quel caso non ci sarebbero stati se o ma, aveva aggiunto, tanto per ribadire il concetto. Una volta aveva scherzato sul fatto che, dato che ero un giornalista, non dovevo preoccuparmi. “Alla più brutta basta che gli fai vedere la tua tessera stampa” aveva detto ridacchiando.


Da: “War Dog. Fighting Other People’s War. The Modern Mercenary in Combat” by Al J. Venter. Pubblicato per concessione della Casemate Publishers. Brani dalle pagg. 25, 36-7.

Pirati d'oggi

“La pirateria moderna non ha nulla in comune con i pirati dei film o dei romanzi d’avventure…”. Da qui si sviluppa il saggio Piracy Today di John C. Payne, “marinaio” che per trentacinque anni è stato imbarcato su navi mercantili e piattaforme petrolifere offshore e che ha vissuto di persona anche un attacco di pirati. Il saggio è un’analisi approfondita del fenomeno: la storia, gli sviluppi, le politiche che la provocano e i mezzi che possono controllarlo, una rappresentazione dettagliata degli scenari contemporanei, delle acque che un tempo si dicevano battute e oggi, molto meno romanticamente, infestate dai pirati. In questo contesto, scrive Payne “la pirateria ha lo stesso andamento della marea. È fluida, scorre da un luogo all’altro là dove i problemi e i disordini politici, sociali ed economici sfociano nel caos creando le condizioni che l’alimentano”.
In questo momento le acque più pericolose, come si verifica dalla cronaca quotidiana, sono quelle del Corno d’Africa, al largo della Somalia. Ma ancora, come dimostrano i rapporti del
Piracy Reporting Centre, il sud-est asiatico mantiene viva la sua antica tradizione piratesca. In questi Bassifondi, che delle storie di quell’area si alimentano, quindi, ecco, per concessione dell’editore Sheridan House, un ampio estratto del libro dedicato alla pirateria in Asia. Interessante non solo dal punto di vista dell’attualità ma anche come ulteriore chiave di comprensione storica e culturale delle vicende locali.

E’ con questi brani (per concessione della Sheridan House Inc.) che apriamo una nuova sezione di Bassifondi, quella delle “Storie”, dedicata a racconti e reportage.

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Prima della diffusione della pirateria nelle acque somale e del Golfo di Aden, la pirateria in Asia era da lunghissimo tempo un problema molto grave. Le acque più calde erano quelle degli Stretti di Malacca, al largo dell’Indonesia e del Mar Cinese Meridionale. Gli Stretti di Malacca sono una sottile via d’acqua lunga circa 900 chilometri che è la rotta più trafficata del mondo, collegando l’Europa alle più importanti nazioni esportatrici dell’Asia: Giappone, Cina, Hong Kong, Taiwan, India, Korea. Senza contare le altre economie emergenti dell’area. Ogni anno la seguono circa 50.000 navi. Più o meno 600 al giorno. Per gli Stretti passa il 25 per cento del commercio mondiale e quasi metà del petrolio, circa undici milioni di barili il giorno.
Le migliaia di isole di quelle acque, come gli estuari dei fiumi che vi sfociano, sono il nascondiglio ideale per pirati.
Un tempo gli Stretti di Malacca erano la base dei terribili pirati Bugi, provenienti dal sud dell’isola di Sulawesi. La parola “bogeyman” (mostro, “l’uomo nero” delle favole) deriva proprio da Bugisman (uomo Bugi). Ecco perché le mogli dei coloni inglesi a Singapore, quando volevano far star buoni i figli capricciosi dicendo: “Fai il bravo oppure il bogeyman verrà a prenderti!”.
In quella stessa area operavano anche altri pirati, come gli orang laut di origine malese o i Dayaki del mare provenienti dal Borneo.
Nel luglio del 2009 un cacciatore di tesori sommersi tedesco recuperò un bottino del valore di 12 milioni di dollari dal relitto del Forbes, una nave pirata affondata al largo del Borneo nel 1806. Il carico comprendeva una tonnellata e mezzo di monete d’argento, porcellane, gioielli e molti altri preziosi.
La pirateria negli Stretti di Malacca ha creato parecchia preoccupazione. Il che non sorprende, data la vitale importanza di quelle acque. In anni recenti, quando gli attacchi si intensificarono, i governi di Singapore, Malaysia e Indonesia reagirono con decisione, inviando navi da guerra e aerei per pattugliare l’area e dissuadere con forza ogni attacco. La Thailandia, a sua volta, assicurò la copertura del settore nord degli Stretti sino al Mar delle Andamane. L’operazione coordinata tra mezzi navali e aerei ridusse significativamente il numero degli attacchi pirati, specie al largo di Aceh, in Indonesia. Lo Tsunami che devastò l’area nel dicembre 2004 ridusse ulteriormente gli attacchi, mietendo vittime anche tra molti pirati e distruggendo le loro barche.
Le acque attorno alle Filippine nel Mar della Cina Meridionale sono sempre state un santuario per i pirati. Ma anche qui un’azione coordinata di navi e aerei ha drasticamente ridotto gli attacchi…
Le aree asiatiche più famigerate sono i porti, le isole e le rade d’ancoraggio in Indonesia, India e Vietnam. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, tra il 1980 e il 1985, i pirati hanno stuprato 2283 donne e rapito 592 persone, facendo preda dei boat people vietnamiti, che in quegli anni fuggivano via mare dal paese dirigendosi a sud.
Nel 2005 i Lloyd’s di Londra inserirono gli Stretti di Malacca nella lista delle zone a maggior rischio di pirateria, elevando l’ammontare dei premi assicurativi all’un per cento del valore di ogni cargo che vi transitava. Una mossa che ovviamente diede molto fastidio alle compagnie di navigazione. Nel 2006, in seguito all’aumento degli attacchi pirati, sia negli Stretti di Malacca sia attorno alla vicina isola di Sumatra, furono intensificate anche le operazioni di pattugliamento navale. La situazione era aggravata dal fatto che i pirati avevano elaborato tecniche più sofisticate e si erano armati con fucili d’assalto e di lanciagranate tipo RPG.
Il punto di svolta si avverte nell’agosto 2006, che segna un netto decremento degli attacchi pirati, tanto che i Lloyd’s rimuovono la regione dalla categoria assicurativa di rischio-guerra…
Nella regione si teme però che l’attività dei pirati possa riprendere in seguito alla crisi economica globale, com’era accaduto nel 1997 dopo la crisi delle borse asiatiche, quando i pirati avevano infestato gli Stretti. E’ per questo che i governi di Indonesia, Thailandia e Singapore hanno deciso di continuare l’azione congiunta di pattugliamento.
Alla fine del giugno 2009 la situazione ha preso una piega diversa. Mentre la maggior parte degli incidenti si è verificata mentre le navi erano all’ancora, c’è stato solo un leggero incremento in attacchi compiuti mentre le navi erano in navigazione lungo gli Stretti o nel Mar della Cina Meridionale. Mentre prima il bottino era costituito soprattutto da denaro in contante o oggetti personali di qualche valore, negli ultimi attacchi si è puntato soprattutto al carico e alle attrezzature di bordo. Sono aumentati anche gli attacchi compiuti a bordo di rimorchiatori, soprattutto in acque vietnamite, specie nella rada di Ho Chi Minh City e Vung Tau. E’ aumentato anche il livello di violenza e sono stati presi ostaggi.

From Piracy Today: Fighting Villainy on the High Seas by John C. Payne. Copyright © 2010 by John C. Payne. Reprinted with permission of Sheridan House, Inc.