Il Cerchio

Il vuoto, la forza, l’eleganza, l’universo, l’assoluto, l’infinito spazio-temporale, l’estetica. Sono alcuni significati dell’Enso, un simbolo, non un carattere: il cerchio della tradizione Zen. E’ anche il soggetto centrale della pittura Zen: il momento in cui si dà libero impulso alla creazione, “l’espressione dell’istante”. Solo così si riesce a dipingerlo con un unico, fluido colpo di pennello.
L’Enso mi attrae. Lo penso come un catalizzatore di Storie, un portale che dà accesso a un mondo in cui il caos sembra comporsi in un ordine elegante.
Tempo fa, in una galleria di Singapore, ne ammirai uno, dipinto da Fabienne Verdier, sola occidentale che possa rivendicare il titolo di calligrafa.
img013
Mesi dopo la incontrai nella sua casa-studio nella campagna a nord di Parigi. Stava preparando una serie di quadri per la Cattedrale di Bruges: dodici dipinti che raffigurano l’Enso, che le sono venuti in mente osservando un dettaglio di un quadro di Van Eyck. Passeggiando nel giardino dove brucia le tele che “non hanno vita”, in compagnia di un gatto con un occhio solo, mi ha parlato del senso dell’ascesi dell’Enso. Mi ha spiegato che la ripetizione dell’Enso era come rappresentare una sonorità in modo differente per creare un’armonia.
Sono ripartito con alcuni suoi libri e la riproduzione di un Enso che ho portato a Bangkok. Non è perfetto. “E’ una metafora della nostra umanità” ha detto Fabienne. Come quelli di molti artisti della tradizione Zen, non è un cerchio completo, bensì aperto, a significare che non è un entità a se stante, ma si connette a qualcosa di più grande. L’ho appoggiato su un leggio della libreria dove raccolgo amuleti, un modellino di barca indonesiana, quattro piccoli Buddha dai colori pastello. Fanno da contorno ai libri di frequente consultazione, così che, ad ogni ricerca, sono indotto a riconnettermi con tutto ciò che rappresentano.
Qualche tempo dopo, mentre mi documentavo per l’ennesimo articolo su Bangkok, ho trovato tra le pagine di un libro un ritaglio su Jukkoo Wong, tatuatore famoso nel mondo dello spettacolo thailandese. Jukkoo è figlio di Jimmy Wong, che s’era fatto un nome tatuando i militari americani in licenza a Bangkok durante la guerra del Vietnam. Avevo già incontrato Jukkoo in un’altra occasione. E’ un personaggio bizzarro, con una sottile vena di follia. Pensai che fosse perfetto nella galleria di situazioni che dovevamo presentare in quell’articolo su Bangkok.
Così, con il fotografo che lavorava con me a quel servizio, andammo a trovare Jukkoo. E improvvisamente ci trovammo coinvolti in una commedia dell’assurdo diretta da Jukkoo che ci vedeva vittime, spettatori e protagonisti. Com’era già accaduto la prima volta che l’avevo incontrato, gli chiesi se potesse tatuarmi il kanji che aveva sul polso. Non ne conoscevo il significato ma ero affascinato dal tratto, dalle sfumature. Jukkoo rispose come la volta precedente: non poteva, quel tatuaggio era solo suo ed era stato fatto da un altro. Questa volta, però, mi propose un’alternativa. Mi fece vedere il disegno di un Enso. Era incredibilmente simile a quello di Fabienne. Sembrava impossibile fosse stato tracciato con un ago da tatuaggio.
Spesso, quasi sempre per la verità, non sono un uomo dalle decisioni rapide. Sento il bisogno di ragionare, metabolizzare. Sono vittima consapevole del Dubbio. Ma in quel caso no. Era come se quell’Enso esercitasse una forza d’attrazione cui non riuscivo a sottrarmi.
Mentre Jukkoo lo disegnava sull’avambraccio sinistro facendo scivolare l’ago come fosse un pennello, come se scomponesse il pennello nelle sottili strisce lasciate da ogni singola setola, pensavo a tutte le coincidenze che mi avevano condotto in quel piccolo studio di tatuaggi in una via di Pratunam, uno dei quartieri più animati di Bangkok. Pensai pure che mancavano pochi giorni dalla fine dell’anno e che quel tatuaggio poteva segnare l’ennesimo rito di passaggio della mia vita. L’ingresso a un nuovo mondo, modo di essere.
P1090140
Sono tornato in Italia poco tempo dopo. Nella mia città, Ancona, ho trovato l’inverno sul mare, scene che ogni volta mi ricordano La prima notte di quiete. Una malinconia perfetta per raccogliere i pensieri.
Osservando il mio Enso, che, come aveva detto Jukkoo, si definiva sulla pelle giorno dopo giorno, quel cerchio diventava un mezzo per vedere il mondo nella sua “doppia esposizione”, la sua superficie e la sua profondità. E’ un’idea, questa, che mi è venuta riguardando un libro sui Keiji Nishitani, un filosofo giapponese del primo Novecento.
Quel testo l’avevo cercato nella libreria della casa di Ancona - riordinata dopo un ennesimo trasloco - perché volevo trovare idee, concetti con cui alimentare l’Enso che ho sull’avambraccio affinché lui, a sua volta, riuscisse a metabolizzare il tutto suggerendo una storia. Ritrovai così altri testi, soprattutto di haiku, e una raccolta di Matsuo Basho, che ancora una volta m’incantò coi suoi versi. “Viaggiatore voglio essere chiamato, ora che cade il primo scroscio di stagione” scrisse poco prima di morire. Un mantra per esorcizzare la mia paura.
Nel frattempo ho scaricato la versione elettronica dell’ultimo libro di Nicolai Linin, Storie sulla pelle, racconti sulla tradizione dei tatuaggi dei “criminali onesti” siberiani. Le sue storie e i suoi tatuaggi sembrano molto lontani dall’assoluta semplicità dell’Enso. Ricordano più l’idea del Sak Yant, il tatuaggio magico thailandese. Ma innescano l’ennesima coincidenza: Linin racconta che il protagonista delle sue storie voleva modernizzare il tradizionale tatuaggio siberiano. Che è ciò che sta facendo Jukkoo col Sak Yant. Sarebbe interessante un’analisi comparata. E sarebbe uno spettacolo l’incontro dei due personaggi.
Per il momento, non vedo l’ora di mostrare a Fabienne il mio tatuaggio. Tra poco sarà a Singapore per presentare le sue nuove opere nella galleria dove è cominciata questa storia. Ma il cerchio non si chiuderà così.
|