Blade Runner Syndrome

A Bangkok o Manila, come in certi quartieri di Hong Kong, Kuala Lumpur o Tokyo, è facile essere colti dalla Sindrome Blade Runner. Prende nome da quelle scene del film in cui si viene catapultati in una metropoli postmoderna, divisa in un sopra di grattacieli e occulti centri di potere e in un sotto di sterminati bassifondi al neon, disseminati da banchetti di street-food.
Un mondo dominato da una classe di oligarchi e popolato da una massa confusa e sordida. E’ una sindrome pericolosa: deforma la realtà. Per alcuni quelle scene divengono l’immagine matrice di un mondo globalizzato, dominato da multinazionali che agiscono come spettri creatori di zombi. In altri si manifesta come una perversa seduzione per tutto ciò che è ambiguo, sordido, in penombra. In entrambi i casi crea dipendenza culturale. Ovunque si vada, si cercano disperatamente situazioni che dimostrino quel postulato, che inducano quel brivido esistenziale. Si perde il quadro generale in cambio di uno scorcio. Poi si comincia a credere che quello sia il mondo. E qualcuno ci si smarrisce. E’ il sonno della ragione.


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Democrazia: controllata o comprata?

L’Asia, le Thailandia in particolare, sembra divenuta il laboratorio in cui si sperimentano e dibattono le nuove filosofie politiche. Se sia preferibile una “managed democracy”, una democrazia controllata, o una democrazia di stampo occidentale. Anche a costo di accettarne i limiti e le corruzioni. Nel video, diffuso dal quotidiano thai The Nation, l’ex premier Thaksin, in un momento di distrazione, ammette di aver pagato i suoi sostenitori.

Lo possiamo vedere perché siamo in democrazia o perché è una prova a carico della democrazia comprata (a poco più di 10 euro)?
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The God and the Gun

«I have two partners: the God and the Gun». Parola di Franco Tito, capitano del barangay, il villaggio, di Diwalwal. Per confermare le sue parole prima alza gli occhi al cielo, poi estrae l’automatica con caricatore da 11 colpi che porta sempre al fianco.
Il territorio del barangay si estende per 729 ettari sul fianco del monte Diwata, nella Compostela Valley, sud dell’isola di Mindanao. E’ in questa montagna che si trova il più grande deposito d’oro delle Filippine. Forse uno dei più grandi al mondo. La zona più ricca, a quanto pare, è concentrata in quei 729 ettari. Ci vivono oltre 40.000 persone. È un agglomerato di capanne, spacci, bordelli, mercati, sparso sui fianchi della montagna, intersecato da strade di pietre e fango, colate tra le immense felci della foresta come fossero un fiume di legno, mattoni, metallo. Come fossero anch’esse i “destino”, i rami delle small scale mines, le piccole miniere. Queste a loro volta s’intrecciano sotto la montagna in cunicoli dove gli uomini strisciano come serpenti, strappando tonnellate di pietra che saranno frantumate per estrarne circa 20 grammi d’oro a tonnellata. Diwalwal è un formicaio. Negli anni ‘80, dopo la scoperta dell’oro, era il posto più pericoloso delle Filippine, uno dei più pericolosi al mondo. Sparavano raffiche di M16 anche per farsi luce. Poi è arrivato Franco Tito ed è riuscito a mettere ordine. Soprattutto perché ha trovato un nemico comune: le multinazionali che vorrebbero trasformare Diwalwal in un’immensa miniera a cielo aperto. Spazzando via la montagna, la foresta e quello che per gli uomini come Franco è diventato un luogo dove rifarsi una vita. Anche rischiandola ogni giorno nel loro “destino”.
La loro è una delle tante storie che in questo momento sembrano non avere un perché. Sono troppo esterne al nostro mondo. Invece possono servirci a riflettere su quanto siano relativi i nostri valori, sulle infinite sfumature tra giusto e ingiusto.
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Un indovino non mi ha detto

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In Asia bisognerebbe sempre consultare un indovino prima di muoversi. Avrei saputo che, con Nettuno in opposizione al sole, la rivoluzione delle camicie rosse in Thailandia era destinata al fallimento. Avrei evitato un precipitoso ritorno a Bangkok da uno sperduto villaggio di minatori di Mindanao, Filippine.
Il cattivo auspicio per i seguaci dell’ex premier Thaksin è segnalato sulla prima pagina di The Nation, autorevole quotidiano thai in lingua inglese, del 15 aprile.
Oggi la capitale è semideserta. Non per lo stato d’emergenza, ma per il ponte di Songkran, la festa dell’acqua, ufficialmente allungato sino a venerdì.
Forse solo gli indovini attorno al Wat Pho, il tempio del Buddha Reclinato, sanno che cosa accadrà nei prossimi giorni. Secondo molti il primo ministro Abhisit Vejjajiva sta ritrovando la sua anima thai, che sembrava offuscata da un’educazione troppo inglese: ha recuperato il suo luak yen, il sangue freddo, e ha ristabilito il rapporto Yi-soong-ti-tam, fondamentale distinzione gerarchica che impone al superiore di dimostrarsi tale. Così, dopo aver “perso la faccia” annullando il vertice dell’Asean in seguito alle manifestazioni dei rossi, ha saldato il suo debito morale ristabilendo l’ordine a Bangkok. Il che potrebbe permettergli di mediare tra i suoi oppositori e i suoi stessi sostenitori. Secondo altri, però, è ostaggio della nobiltà e dell’esercito, cui deve la sua elezione, e non potrà attuare alcun cambiamento significativo.
Per comprendere davvero che cosa accadrà, ma anche che cosa è accaduto e sta accadendo bisognerebbe consultare gli indovini sparsi nel sud-est asiatico come i venditori di zuppa. Perché gli avvenimenti thailandesi riguardano tutta l’area. Il problema reale, infatti, è il modello politico da seguire. Un’alternativa tra “democrazia controllata” (che in Thailandia è rappresentata dai gialli) oppure “democrazia senza controllo” (incarnata dai rossi). Da un punto di vista occidentale è un falso problema, poiché la democrazia è solo una, definita dalla nostra tradizione culturale. Il che impedisce di comprendere la nuova Asia. Ha creato e continua a creare una serie di equivoci: ha portato a condannare Thaksin come corrotto multimiliardario populista e poi a sostenerlo, sia pure con riluttanza, come avversario dell’oligarchia.
Più che consultare un indovino sarebbe opportuno leggere “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Per comprendere che la Storia non procede in modo lineare, meccanico, ma è un continuo trasformarsi e adattarsi alle situazioni.
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Cuore di Tenebra

Uno dei più attivi rappresentanti dell’opposizione birmana mi inoltra un comunicato emesso il 9 aprile da un gruppo stanziato nello stato Shan, l’estremo oriente della Birmania. Denuncia i rapidi, distruttivi cambiamenti che si stanno verificando in quella remota regione. Lo riporto integralmente. E’ illuminante. Aiuta a capire quanto le regole morali sono relative in quel cuore di tenebra.

Demand for rubber in China is spurring a scramble to plant trees by the Burma Army, ceasefire groups, and militias. Under the banner of opium eradication, the Yunnan Hongyu Group from China is also establishing rubber plantations by employing forced labor after entire villages were forcibly relocated. However the bulletin confirms UN data that opium cultivation is increasing in Shan State.
“Rubber is being planted on every slope but farmers don’t know what they’ll eat” said Japhet Jakui, the director of the Lahu National Development Organization which authored the bulletin.
Wildlife trafficking is increasing to China and is now operating through Keng Larb, a new hub of trade on the Mekong River. Local Lahu villagers describe a dramatic decrease in the populations of elephants and tigers and the disappearance of gibbons. One hunter interviewed for the bulletin received US$20,000 for a single tiger carcass and skin.
China continues to construct a series of giant dams on the mainstream Mekong while downstream communities anxiously question what impacts will befall them. Unprecedented floods in August 2008 damaged thousands of acres of paddy farms.

Il rapporto completo è visibile sul sito Burma Rivers Network.
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Le Signore in Rosso

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Mentre passeggiavo per una grande strada di Bangkok, a pochi passi dal palazzo del governo, una donna mi ha invitato a sedere sul marciapiede e mi ha massaggiato la schiena. Intanto un’altra signora mi rinfrescava con un ventaglio. Un’altra ancora mi ha portato da bere. Altre cinque o sei donne ridevano della mia faccia beata. “Mai pen rai”, non ti preoccupare “questa è la Thailandia” ha detto una di loro. Quelle donne, tutte vestite di rosso, facevano parte delle sessantamila persone che manifestavano contro il governo e in favore dell’ex premier Thaksin, deposto da un colpo di stato nel 2006 e oggi in esilio non si sa bene dove. Il ventaglio con cui mi sventolavano raffigurava la sua faccia. Quelle donne venivano dalle zone più povere del paese: l’estremo nord e l’Isaan, il nord-est. Una è una cuoca, un’altra ha un baracchino al mercato, una lavora per un’impresa di pulizie. E una, ovviamente, fa massaggi. Erano le tipiche rappresentanti dei “rossi”, come sono chiamati i manifestanti, per il colore delle magliette o dei cappellini che indossano. Nel loro caso il rosso non definisce una posizione di stampo comunista. E’ per contrapporsi ai “gialli”, oggi filogovernativi e in precedenza manifestanti essi stessi quand’era al potere il partito di Thaksin. I gialli rappresentano l’élite del paese, la borghesia di Bangkok, la nobiltà. I rossi sono le classi più povere, i contadini, i piccoli commercianti. I gialli sono favorevoli a una riforma che limiti la democrazia a favore di una dittatura benevolente e “illuminata”. I rossi sostengono una democrazia di stampo populista e molto spesso sono più che disposti a vendere il loro voto. E’ un’alternativa da filosofi della politica. Questa mattina, tra tutte quelle donne, mi sentivo molto populista.
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Il Tempio Maledetto

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Sono ripresi i combattimenti per un antico tempio dedicato al dio Shiva. E’ arroccato su uno sperone roccioso delle montagne Dangrek, al confine tra Thailandia e Cambogia. Per i thai è il Phra Viharn, per i khmer il Preah Vihear.
Da secoli è conteso. A lungo compreso in territorio thailandese, nel 1962 fu assegnato alla Cambogia dalla Corte Internazionale di Giustizia in base ai confini tracciati dai francesi nel 1904. Nel 1975 fu occupato dai khmer rossi e nel 1979 divenne uno dei santuari degli uomini di Pol Pot, rifugiatosi ad Anlong Veng, 65 chilometri a est.
Riaperto nel 1998, per qualche tempo fu un’attrazione storico-turistica condivisa, tanto che i governi thai e cambogiano presentarono un’istanza comune affinché fosse dichiarato patrimonio culturale dell’umanità. Quando è accaduto, nel luglio scorso, il tempio è divenuto un simbolo di orgoglio nazionale per entrambi i paesi e pretesto per nuove rivendicazioni territoriali. Dopo qualche giorno di scontri è stata sancita una tregua. Ma le parti in causa non sono riuscite ad accordarsi nemmeno sul nome.
Il Tempio Maledetto sembra quello più consono. E’ uno scenario di fantasmi. Quelli di dei e demoni incisi sulle pietre. I neak ta, gli spiriti ancestrali per i khmer, e i phra phum, gli spiriti dei luoghi per i thai. Degli uomini uccisi dai khmer rossi e di quelli che cercavano di fuggire dalla Cambogia e furono ricacciati indietro, sui campi minati. Dei soldati di questo ennesimo scontro, vittime dell’eterno domino che si gioca in sud-est asiatico.
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