Jan 2009

Nessuno li vuole. A parte i trafficanti d’uomini

I Rohingya sono gli unwanted, gli indesiderati del sud-est asiatico. Sono anche gli ignoti. Sono una minoranza etnica di religione musulmana stanziata nella regione birmana dell’Arakan, sul Golfo del Bengala. Per l’autocratica giunta birmana non hanno diritto di nazionalità. In nome del mahan lumyogyi naingnngan, di una nazione monolitica, una specie di reich birmano, i rohingyas sono perseguitati, discriminati, schiavizzati. Condannati a vivere in un ciclo di povertà, repressione, fuga, cattura e sfruttamento.
La fuga è verso il vicino Bangla Desh, in cerca di solidarietà etnica e religiosa. Ma solo i più fortunati riescono a ottenere lo status di rifugiati. La maggioranza sopravvive attorno ai campi profughi. Molti si consumano facendo i conducenti di risciò nella città di Cox Bazar.
E così, tra dicembre e marzo, quando il monsone invernale porta bel tempo e calma le acque del mar delle Andamane, i Rohingyas riprendono la fuga. S’imbarcano su battelli sgangherati cercando di raggiungere la Thailandia, la Malaysia o addirittura l’Indonesia. Scompaiono in mare a centinaia, muoiono di fame, di sete, divorati dagli squali.
In questo periodo se ne parla, almeno nei giornali dell’area, perché la marina thai è stata accusata di aver ricacciato in mare un migliaio di boat people rohingyas, abbandonandoli al loro destino con due sacchi di riso e due galloni d’acqua per barca. Di cinquecento di loro non si hanno più notizie. Altri sono detenuti in attesa d’essere rimpatriati. Secondo alcuni osservatori la Thailandia vuole evitare che le sue coste orientali siano invase da flussi sempre maggiori di profughi dalla Birmania e dal Bangla Desh. Senza contare che alcuni Rohingyas potrebbero essere reclutati dai movimenti islamici attivi nell’estremo sud del paese. Per qualcuno il blocco potrebbe essere una fortuna. L’ingresso di rifugiati clandestini molto spesso è organizzato dai trafficanti di uomini. Sono gli unici a volere i Rohingyas.
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Il kalashnikov: madeleine o Coca Cola?

“L’odore dei fucili, dovendo pulirli, l’odore dell’olio dei kalashnikov è come quello di cui si parla in Apocalypse now a proposito dell’odore del napalm al mattino. Se non siete stati in guerra non potete capire quello che voglio dire. Non avete mai annusato quell’odore…”. Parola di Nassim Nicholas Taleb, operatore di borsa e filosofo, autore del best seller Il Cigno nero, ossia “come l’improbabile governa la nostra vita”. Quel ricordo dell’odore dell’olio dei kalashnikov fa parte di un’altra vita, di quando era un giovane miliziano cristiano nella guerra in Libano. E’ la sua madeleine. Per il reporter Michael Hodges il kalashnikov è come la Coca Cola. Lo definisce così, “la Coca Cola delle armi” nel libro AK 47, the story of a gun. E’ un marchio globale e come tale “è privo di morale o regola etica, il puro simbolo di una scelta di vita”. Alla fine il kalashnicov è una metafora dei punti di vista: “the gun is who I am”, dicono in Iraq.

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L'insostenibile lentezza del treno

Da Phnom Penh a Battambang, Cambogia: 274 chilometri di ferrovia, un percorso di circa 14 ore seguito da uomini, donne, vecchi, bambini per i quali la globalizzazione è un mistero, troppo poveri anche per i bus.
Il treno è una carcassa, un rottame mobile che oscilla come un battello, dove tutto sembra marcire: il legno e il ferro dei vagoni come la carne, i denti dei passeggeri, i rifiuti sul pavimento accumulati nel tempo, ormai sedimenti. E dove tutto ciò diviene una specie di nuovo ordine che riflette l’economia, la società, la natura di un Tropico ancora Triste. Il treno è lo specchio della realtà che scorre oltre le orbite vuote dei finestrini: gli slum di Phnom Penh, le baracche dei villaggi.
Un viaggio del genere non è un modo per entrare in contatto con questa realtà. Scendi e ti gira la testa, sei umido, sporco, eppure hai condiviso solo un giorno della loro esistenza. Per noi c’è sempre un ritorno, un punto d’arrivo diverso. Per loro il viaggio non ha fine: prosegue interminabile nella vita in una capanna in mezzo a una risaia deserta, di fronte a una ferrovia che passa una volta la settimana.
All’apparenza è un’occasione per riflettere su se stessi. Ma i pensieri più profondi, poco a poco, si dissolvono nella ricerca di una posizione più comoda, nella necessità di espletare una funzione fisiologica, di ripararsi dal sole, dal caldo o dall’acqua del diluvio improvviso che inonda il vagone e ti fa comprendere perché tutto imputridisca. Un viaggio del genere dovrebbe indurre a riflessioni sul tempo, sui diversi modi di viverlo e seguirlo. A riconsiderare la nostra fretta e la nostra insofferenza rispetto al monacale atteggiamento degli orientali. Dovrebbe risintonizzarci sui ritmi circadiani perduti. Potrebbe innescare una meditazione sul karma, il destino o il caso, comunque si voglia chiamare la fortuna o la sfortuna di nascere in un luogo o in un altro, nonchè sulla relatività di questo fattore in funzione delle diverse priorità esistenziali.
Un viaggio così, invece, nella sua insostenibile lentezza, è un detonatore di dubbi. Ci mette di fronte all’indeterminatezza delle definizioni che siamo soliti dare al viaggio e al viaggiare, nel confronto con una realtà che non è mistica ma solo straziante.
Alla fine quel viaggio diviene solo un’altra storia da raccontare. L’ennesima storia che comincia con “Che ci faccio qui?”.

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