La giallezza morale

Sono andato a vedere se Kaing Guek Eav, alias Duch, mostra segni di giallezza morale.
Per William T. Vollmann, autore di uno sterminato saggio sulla violenza,
Come un’onda che sale e che scende, la giallezza morale è “la manifestazione esteriore del male o della violenza”. Segno inattingibile. Anche perché cangiante.
Duch era il responsabile del Tuol Sleng, il centro di tortura dei khmer rossi. Dove sono state “distrutte” (komtech, questo il termine khmer che rende l’idea della loro sorte) circa 20.000 persone. In questi giorni Duch compare di fronte alla Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (ECCC), tribunale internazionale istituito per processare i pochissimi leader dei khmer rossi ancora vivi. Solo alcuni di loro. Il processo si svolge in una cattedrale nel deserto, un nuovissimo, enorme palazzo di giustizia alle porte di Phnom Penh. La sala delle udienze è un teatro. Da un lato i posti per il pubblico, dall’altro un palcoscenico con la corte. Separati da una gigantesca vetrata antiproiettile che dà l’impressione di trovarsi di fronte a un acquario.
Duch è in camicia bianca a maniche lunghe, pantaloni neri, scarpe nere. E’ piccolo, leggermente ingobbito, una spalla, la sinistra, più bassa dell’altra. Forse soffre d’artrite. I capelli sono brizzolati, la testa grossa. Mi rendo conto che cerco di fare un’analisi lombrosiana. Ma non ha senso. Tanto più che non lo vedo in faccia. È seduto di fronte alla giuria. Le spalle al pubblico. Per vederlo bisogna guardare gli schermi Panasonic ai lati dell’acquario che trasmettono i primi piani dei protagonisti. Lui guarda sempre in alto a sinistra, in un angolo cieco sopra i banchi dell’accusa. Lo ascolto in cuffia. La voce è gracchiante, stridula, quasi da vecchia. Provo a immaginarla mentre pronuncia la frase che per i khmer rossi equivaleva a una condanna a morte. «Se sei vicino non sei di alcuna utilità. Se sei lontano non si sente la tua mancanza».
Non riesco a capire quanto sono condizionato dall’ambiente. In Cambogia non parlano dei khmer rossi. Ma tutti credono negli Spiriti dei morti che non hanno pace. Compresi quelli dei teschi che sono conservati nelle teche di vetro a memoria dei massacri. Per calarmi nell’atmosfera il giorno prima sono tornato a visitare il Tuol Sleng. Ormai è divenuto l’archetipo del sepolcro imbiancato, letteralmente. Per come sono state sistemate le celle, con gli strumenti di tortura disposti sulle brande in una composizione geometrica, di design.
Forse Duch trasmette energia negativa. Ma la giallezza morale non la percepisco. Appare uno come tanti. Ha un’aria precisa, da professore, qual era prima e dopo il suo periodo da aguzzino. Le penne nel taschino, i faldoni ordinatamente disposti sul tavolo, gli occhiali che si aggiusta mentre li sfoglia.
“Il diavolo che nella nostra mente collettiva è personificato nei khmer rossi non si trovava alla fine di un malarico fiume nel profondo di una giungla primordiale…I dettagli non ci avvicinano a loro. Avvicinano loro a noi” scrive il reporter
Nic Dunlop, un uomo talmente ossessionato da Duch che per anni ha girato la Cambogia con la sua foto. E’ così che lo ha trovato.
Alla fine dell’udienza Duch si alza e si guarda intorno. Ho l’impressione che per la prima volta guardi in faccia qualcuno. Me. Inevitabilmente mi viene in mente l’aforisma di Nietzsche: “Quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro”. Mi rassicuro con proverbio cinese: “Quando l’apparizione di un demone non ti sgomenta più, il demone se ne andrà”.

La normalità dell’orrore nel monologo finale di Apocalypse Now.

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Tropical Malady

«A mangiare la zuppa con una testa di pesce ti passa la fame ma non ti nutri. È una sottile differenza che ci sfugge». A rilevare la differenza è un espatriato che vive in Cambogia da quasi trent’anni. E ci vive, per sua libera scelta, come un cambogiano. Quell’uomo è all’ultimo stadio della Tropical Malady. Non è una malattia tropicale come la malaria o una qualunque tra le patologie che possono colpire in un clima tropicale. È una sindrome psicofisica che si trasmette per contagio con un altrove dove non tutti possono nutrirsi a sufficienza e c’è chi muore di fame, popolato da rifugiati, schiavi e trafficanti d’uomini, vittime e signori della guerra. Dove ogni giorno si prende coscienza delle casualità di nascita, che qui appaiono come processi karmici. Tropical Malady, come nel film del thailandese Apichatpong Weerasethakul, deriva dall’impressione inquietante di trovarsi in bilico fra due mondi. Un corto circuito in cui sia i mostri sia i ricordi divengono reali e gli uni sembrano derivare dagli altri. E’ una malattia che si cronicizza, che ti colpisce con ciclici attacchi, improvvisi e inaspettati. Si manifesta come i postumi della malaria: depressione, malinconia, stanchezza. In quei momenti vorresti scappare, tornare là dove le stagioni si susseguono, dove ci si nutre di cibo e di certezze. Ma forse è meglio imparare a convivere con la malattia, lasciarla metabolizzare in ciò che Gregory Bateson chiamava l’ecologia della mente. Come accade nel film: addentrandosi sempre più profondamente nella giungla, s’impara un’altra lingua per parlare agli Spiriti e si raggiunge un altro livello di consapevolezza

In attesa di guarigione o Illuminazione...
Di trafficanti e rifugiati ne ho già piena la vita…


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Storia di Phy

Le chiedevano se era una spia. Se aveva portato armi ai ribelli. Se aveva avuto l’incarico di parlare di Gesù. Ogni volta che rispondeva di no la picchiavano di più. L’hanno picchiata e stuprata per giorni. Phy è una ragazza di etnia Hmong, una delle minoranze etniche del Laos. Come migliaia di altri del suo popolo si era rifugiata in Thailandia. Ma è stata rimpatriata in Laos. Alla fine è riuscita a fuggire. È tornata nell’unico posto dove poteva sperare di trovare aiuto: il campo profughi. La storia di Phy appare nell’appendice del rapporto presentato da Medici Senza Frontiere, sotto il titolo “I pericoli di essere rimandati indietro”. Dal 2005 MSF è presente nel campo rifugiati Hmong nella provincia di Petchabun, in Thailandia. Ma oggi ha annunciato che sarà costretta a rinunciare alla sua missione se non cesserà la politica di deportazione dei profughi. I Hmong scontano un antico peccato. Negli anni Sessanta e Settanta combatterono contro i comunisti del Pathet Lao e l’esercito nordvietnamita. Una guerra segreta organizzata dalla Cia, finanziata col traffico d’oppio e costata quasi settantamila vite Hmong, guerriglieri e civili. Nel 1975 il loro comandante, il generale Vang Pao, si rifugiò negli Stati Uniti. Alcuni dei suoi fedeli riuscirono a seguirlo. Migliaia fuggirono in Thailandia. Altre migliaia restarono alla macchia portando con sé le famiglie. Di questi ultimi ne sono sopravvissuti circa 1600, nascosti nella giungla del Laos centrale. Vang Pao ha continuato a finanziarli e rifornirli d’armi, sacrificandoli al sogno di una rivolta nel paese. Finché non è stato arrestato in California con l’accusa di voler rovesciare il governo lao. Poco dopo il governo Thailandese ha intensificato il rimpatrio forzato dei rifugiati. I Hmong sono stati sacrificati dai loro ex alleati: vogliono ristabilire rapporti economici e strategici con i paesi con cui erano in guerra quarant’anni fa. Vite di scambio negli equilibri planetari.

La storia degli ultimi Hmong nella giungla Lao in un reportage di Al Jazeera


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Processi

«La nozione di libertà individuale, di leggi, di tribunali era abolita». Lo ha dichiarato Kaing Guek Eav, alias Duch, il responsabile del centro di detenzione e tortura dei khmer rossi, che tra il 1975 e il 1979 materializzarono in Cambogia l’inferno terrestre. P1020050
Kaing Guek Eav, alias Duch, durante il processo
Dopo trent’anni Duch è il primo dei khmer rossi a essere giudicato da un tribunale internazionale per crimini contro l’umanità. Il processo, ripreso oggi a Phnom Penh, è molto discusso. Soprattutto perché esclude dal giudizio gli anni successivi al 1979, quando la Cambogia fu invasa dai Vietnamiti. Dopo di allora e sino al 1998, con la resa dell’ultimo bastione dei khmer rouge, i crimini contro l’umanità continuarono. Ma almeno questo processo c’è, e può essere un primo passo per altri giudizi storici. Quasi nello stesso momento in cui Duch rispondeva alla corte di Phnom Penh, a Rangoon iniziava il processo di Aung San Suu Kyi. Questo, invece, senza un perché. Se non la paranoia dei generali della giunta militare birmana. I mostri continuano a riprodursi e la storia si ripete. Trent’anni fa, per la logica della guerra fredda, l’Occidente continuò a ignorare i crimini dei khmer rossi. Oggi, in nome dei nuovi equilibri planetari, si limita a protestare contro l’arresto di San Suu Kyi e ignora le altre migliaia di detenuti politici. Forse tra trent’anni assisteremo a un processo internazionale in cui qualche esponente della giunta dichiarerà, come Dutch, che la libertà era abolita. Ma probabilmente nessuno comparirà alla sbarra come complice.
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Urla nel silenzio

Aung San Suu Kyi, in un certo senso, è quella che sta meglio. Anche se ha trascorso 13 degli ultimi 19 anni agli arresti domiciliari. Anche se soffre di disidratazione e non riesce più a mangiare. Anche se non può essere visitata dal suo medico personale, che è stato arrestato la sera del 7 maggio. Lei sta meglio degli oltre cento attivisti politici birmani in gravissime condizioni di salute rinchiusi in prigioni e campi di lavoro nei più remoti e segreti angoli della Birmania. L’ultimo rapporto della Assistance Association for Political Prisoners li definisce “Silent killing fields”.
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Come gin and tonic

«Alberghi famosi e reporter di guerra si mescolano bene: come gin and tonic». E’ iniziato così il discorso di Peter Arnett, uno dei più famosi reporter del secolo scorso, ospite d’onore al party per i cinquant’anni del Caravelle, l’albergo di Saigon dove alloggiavano molti giornalisti durante la guerra del Vietnam, la Guerra Americana, come la chiamano là. Arnett fece il suo primo check in al Caravelle il 26 giugno 1962. Nei 13 anni successivi, come corrispondente della AP, avrebbe trasmesso oltre 3000 pezzi. L’ultimo il 30 aprile 1975, il giorno della fine della guerra. Quel giorno, ricorda Arnett, i camerieri del Caravelle continuarono a svolgere il loro servizio come sempre. Di questi tempi, quando si discute sin troppo di nuovi media, Arnett non ha voluto impartire lezioni. Si è limitato a raccontare qualche episodio dell’epoca. Come quello degli impeccabili camerieri del Caravelle, o quello di George Esper, allora giovane reporter dell’AP ignaro dell’uso del bidet. Secondo lui era stato predisposto per poter sciacquare gli stivali sporchi di fango. Arnett ha parlato anche del fango, quello della Collina 875, nella valle di Dak To, al confine con il Laos, dove nel novembre 1967 fu testimone di una delle più sanguinose battaglie della guerra. Fu allora, racconta, che capì davvero perché si trovava là: «per raccontate le storie di quegli uomini. E’ questo che fanno i reporter». Non è il mezzo che fa il messaggio, non è il bicchiere che conta per un buon gin and tonic.

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Fuga di mezzanotte

«I started at midnight...». E’ iniziata proprio in quella fatidica ora la fuga di David McMillan. Nel 1996 è evaso dalla prigione di Klong Prem, nota come Bangkok Hilton. E’ stato l’unico occidentale a riuscirci. Uno dei pochissimi in assoluto. E così è diventato un esperto in evasioni. Tanto che la BBC ha chiesto il suo commento quando, poche settimane fa, due detenuti sono evasi in modo spettacolare da una prigione greca. Chi vuole saperne di più può leggere Escape, il libro in cui racconta la sua avventura. O ascoltarla dalla sua voce nell’intervista della BBC. Prima di diventare un personaggio romanzesco che sembra recitare il copione di un film, McMillan era un trafficante d’eroina. Le trame sono come la confessione: rimettono i peccati.
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La follia del Delta

Un anno fa il ciclone Nargis devastava il delta dell’Irrawaddy, Birmania. In quei giorni morirono almeno 140.000 persone. Due milioni e mezzo di esseri umani persero tutto.
A distanza di un anno la vita dei sopravvissuti è ancora disperata. Dopo i primi, criminali ostacoli posti dalla giunta alle organizzazioni di soccorso, queste sono riuscite a evitare la seconda ondata di morti per fame e malattie. Ma oltre mezzo milione di persone non ha un riparo permanente, circa 200.000 non hanno acqua potabile. Dalle informazioni che filtrano dalle più remote zone del delta, solo il 10 per cento della popolazione riceve un’assistenza efficace. Tutti gli altri dipendono dai funzionari governativi. Si è così creato un ciclo perverso di corruzione e schiavitù. Per ricevere aiuto devono pagare i funzionari che controllano che controllano acqua, cibo, medicine. Ma per farlo sono costretti a indebitarsi e l’unico modo per pagare i debiti sono i lavori forzati. Facile comprendere perché nel delta dell’Irrawaddy le malattie mentali si diffondano come un’epidemia.


Per informazioni aggiornate sulla situazione birmana, visitate il sito di Burma Partnership.

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