La triste sorte di Veronique Delmas

Veronique Delmas è stata venduta. Assieme a decine di compagne, attende che si compia il suo destino su una spiaggia sul Golfo del Bengala. E’ ancora giovane, ma sono trascorsi i tempi di quando era bella, girava il mondo col suo passaporto delle Bahamas e in tanti pagavano per ottenere i suoi favori. Forse è per questo che si trova qui: ha lavorato, girato troppo. Si è consumata. Tra poco la faranno a pezzi e ne venderanno le parti.
Veronique Delmas è una nave, un cargo portacontainer lungo 189 metri, di 30.750 tonnellate di stazza, costruita in Francia nel 1984 e battente bandiera delle Bahamas. E’ stata venduta a uno dei cantieri di demolizioni navali di Chittagong, in Bangladesh. E’ conosciuto anche come il mattatoio delle navi, specie dopo il reportage fotografico realizzato da
Sebastiao Salgado nel 1989.
Oltre la linea segnata dalla bassa marea sono allineate decine di navi di ogni tipo e stazza, posate sui bassi fondali, le ancore in bando. Alcune sono già sezionate, tagliate a compartimenti. Compongono un’immagine spaziale, surreale, postatomica. Sembrano materializzare il crollo della civiltà, la decadenza, la vacuità.
I bassifondi scivolano in una larghissima spiaggia che ormai ha modificato la sua composizione geologica. E’ una nuova materia, una miscela di sabbia fango e nafta, una specie di tappeto elastico in cui improvvisamente si sprofonda.
Là dove il terreno si solidifica sono sparsi i giganteschi pezzi estratti dalle navi. Plance, ancore, turbine, timoni, catene. Addirittura intere sezioni che vengono rovesciate come immensi quarti di bue. Tra i pezzi formicolano uomini ormai indistinguibili dall’ambiente che li circonda. Li smontano, li divorano: è un processo quasi entomologico, che ha per unico suono il sibilo delle fiamme ossidriche e il gracchiare dei corvi. E’ la materializzazione in carne e metallo del concetto di entropia. Ci sono anche ragazzi, alcuni poco più che bambini, al lavoro. Ma qui l’alternativa può essere molto peggiore. Le regole morali si disintegrano e trasformano come le navi.
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Rapporto sulla tratta degli schiavi

Le donne sono tra le più coinvolte nel traffico di esseri umani. Come trafficanti. Questo il dato più sorprendente del Global Report on Trafficking in Persons presentato nei giorni scorsi dallo United Nations Office of Drugs and Crime (UNODC). Secondo un funzionario dell’UNODC le donne possono gestire meglio la merce principale di questo traffico: altre donne, vendute per il sesso. Ben più preziose degli uomini, impiegati come forza lavoro.
Il rapporto sottolinea che, nonostante il considerevole aumento degli arresti e la sempre maggiore repressione, il numero dei trafficanti impuniti è “immenso”.
“Il traffico di esseri umani resta uno dei business a più alto profitto e minor rischio” ha detto Gary Lewis, rappresentante dell’UNODC per l’Asia Orientale e il Pacifico. Per combatterlo bisogna prendere coscienza del problema. A cominciare dall’uso dei termini. “Traffico di esseri umani” può rivelarsi equivoco. Quello che lo descrive meglio è schiavitù.

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La giustizia va servita fredda ?

Sono passati trent’anni, un mese e qualche giorno da quando le truppe vietnamite entrarono a Phnom Penh, il 9 gennaio 1979, e posero fine a “quei 3 anni, 8 mesi, 20 giorni” iniziati nell’aprile 1975, quando in Cambogia si materializzò l’inferno terrestre dei khmer rossi.
Gli ultimi demoni di quel periodo saranno giudicati in un processo che inizia il 17 febbraio con le udienze preliminari della Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (
ECCC). Sotto il dominio dei khmer rossi, in quella che divenne la Repubblica Democratica di Kampuchea, si stima siano morti un milione e mezzo di cambogiani su una popolazione di sette milioni. Molti furono torturati e uccisi. Molti di più morirono di fame, fatica e malattie nei campi di lavoro dove furono deportati come schiavi per realizzare l’utopia di purificazione comunista e del ritorno alle origini contadine sognata dal Saloth Sar, meglio conosciuto come Pol Pot. “I diritti individuali non furono sacrificati per il bene collettivo, ma furono aboliti in quanto tali. Ogni espressione dell’individualità umana fu condannata in sé e per sé. La coscienza individuale venne sistematicamente demolita” scrive lo storico Philip Short nel saggio Pol Pot.
Da allora la Cambogia ha vissuto altri vent’anni di guerra civile, ultima vittima della guerra fredda e della folle logica dei blocchi, per cui gli Stati Uniti sostenevano indirettamente gli ultimi khmer rossi, asserragliati nei loro santuari nel nord del paese in funzione anti-vietnamita. Per i troppi scheletri, reali e simbolici, disseminati nel paese come le mine, ci sono voluti altri dieci anni di battaglie politiche e finanziarie per arrivare al giudizio, che vede pochi e vecchi khmer rossi alla sbarra.
Il principale imputato è Kaing Guek Eav, alias Duch, ex resposabile del Tuol Sleng la scuola che divenne la prigione e il centro d’interrogatori dell’S21, il servizio di sicurezza dell’Angka, “l’organizzazione”. In un filmato girato dai vietnamiti 3 giorni dopo il loro arrivo si vedono ancora i cadaveri nelle sale di tortura.
Dobbiamo confrontarci con quegl’incubi anche o proprio perché sono passati trent’anni. E il tempo rende più forte la tentazione o la possibilità di negare.
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Il Triangolo d’Oro fiorisce ancora

Chiang Saen. In questa città dell’estremo nord thailandese il Mekong forma un’ansa che si incunea nel Regno, segnando a est il confine con il Laos e a ovest con la Birmania. Delimita il territorio noto come “Triangolo d’Oro”. Il papavero da oppio cresce bene nel suolo alcalino di questo tratto di fiume. Secondo l’ultimo rapporto dell’Office on Drugs and Crime delle Nazioni Unite (UNODC) sembra destinato a rifiorire.
Sino al 1959 la produzione e il commercio dell’oppio erano monopolio di stato thailandese, in un gigantesco giro d’affari che coinvolgeva militari thai, signori della guerra birmani, reduci cinesi del Kuonmintang, l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek, ulteriormente alimentato dai movimenti di guerriglia comunisti e dalla CIA. La situazione si complicò negli anni Sessanta, quando l’oppio fu dichiarato illegale anche in Thailandia e con l’acuirsi dei conflitti in sud-est asiatico.
Negli ultimi vent’anni la produzione era calata grazie soprattutto alla riconversione delle colture in Laos e in Thailandia. Qui, poi, la cosiddetta guerra alla droga dichiarata dall’ex premier Thaksin Shinawatra aveva letteralmente decimato sia gli ettari di coltivazione sia i trafficanti e i produttori, con un bilancio di oltre 2500 esecuzioni extragiudiziali. Thaksin, deposto da un colpo di stato nel settembre 2006, oggi è sotto inchiesta per violazione dei diritti umani. Intanto la produzione d’oppio è aumentata di oltre il 20 per cento.
In realtà, secondo il rapporto dell’UNODC, il rifiorire dei campi di papaveri è determinato dalla concomitanza di due fattori: l’aumento del prezzo dell’oppio grezzo e la crisi economica (che da queste parti è anche alimentare). Tale congiuntura fa prevedere che il prossimo anno molti contadini, specie birmani, riprenderanno le antiche tradizioni. Con una differenza: a quanto sembra sono soprattutto i più giovani, addirittura gli adolescenti, a far ritorno ai campi.
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