Le mappe dei sogni

«E poi ci sono le mappe dei sogni…» inizia a raccontare il Cartografo mentre costeggiamo una lunghissima, candida spiaggia di un’isola al largo della costa cambogiana.
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Il Cartografo trascorre molto tempo in un bungalow sospeso sull’acqua su pali rossi. E’ il suo ritiro. Era la sua base per disegnare le carte delle isole. Prima ancora aveva fatto lo stesso lavoro tra Tibet e Nepal.
Le mappe dei sogni. Non rappresentano luoghi fantastici, immaginari. Non sono il disegno di luoghi, come quella spiaggia, in cui si materializza l’immagine matrice dell’isola dei sogni. Non sono paragonabili alle mappe mentali degli aborigeni australiani, che ripercorrono le vie create dall’incessante cammino dei mitici progenitori nel Tjukurrpa, il Tempo del Sogno.
Secondo quel cartografo e altri sognatori come lui, sono un po’ di tutto questo. Sono mappe di luoghi reali, esistenti. Ma sono dei sogni perché rappresentano luoghi sognati, che si credevano inesistenti, leggendari, che sono state tracciate seguendo e verificando un mito, un racconto. Com’è accaduto a lui. «Mi dicevano che in un sentiero himalayano c’era una porta che si apriva in una valle…Quella porta c’era e si apriva in una valle». E’ così che ha disegnato la carta della Naar Phu, la valle perduta dove si entra attraverso una porta, popolata dai discendenti dei guerrieri Khampa.
Girando tra le isole e raccontandoci storie sull’Asia, reali e sognate, le mappe si materializzavano nei racconti. «Il cartografo serve a questo. A disegnare quello che c’è sotto, quello che i satelliti non riescono a vedere». La sua era una versione topografica dell’illusione tantrica di Maya, qualcosa che sta tra l’illusione e la disillusione, la percezione del mondo come un’illusione, come un sogno. E in questo sogno narrato le mappe si popolavano di spiriti. “Gli antichi cartografi scrivevano sulle regioni inesplorate: ‘Qui stanno i leoni’. Sui villaggi di pescatori e zappaterra, che sono gente così diversa da noi, possiamo scrivere una sola riga, ma indubitabile: ‘Qui stanno gli spiriti’” ha scritto William Butler Yeats in una delle sue Fiabe Irlandesi.
Dopo quel viaggio ho continuato a pensarci, come se stessi sognando una mappa composta da luoghi, ricordi, viaggi, libri, incontri. Ero “trafitto da meridiani e paralleli” come tanto tempo fa mi disse Alberto Ongaro, citando a sua volta Hugo Pratt.
Inevitabilmente m’è tornato in mente l’aforisma di Alfred Korzybski, il padre della semantica generale: “La mappa non è il territorio”. In realtà m’è rimasto impresso soprattutto perché è una battuta di Robert De Niro nel film Ronin. Il significato è evidente, ma quel giro in barca mi ha portato a pensare che la mappa può essere il territorio, soprattutto se si tratta di una mappa del sogno. E’ quasi ciò che affermava Gregory Bateson, avventuriero del pensiero: “Forse la distinzione tra il nome e la cosa designata, o tra la mappa e il territorio, è tracciata in realtà solo dall’emisfero dominante del cervello. L'emisfero simbolico o affettivo, di solito quello destro, è probabilmente incapace di distinguere il nome dalla cosa designata: certo esso non si occupa di questo genere di distinzioni”. Non a caso Bateson è il teorico dell’ecologia delle idee, un metodo olistico, volto ad individuare le connessioni esistenti tra fenomeni come la struttura delle foglie, la grammatica di una frase, la simmetria bilaterale di un animale, la corsa agli armamenti.
Mentre mi perdevo tra queste connessioni, ho ritrovato una citazione che avevo annotato in altri tempi: “Esigua è la differenza tra la recitazione comune del rosario di primo mattino e la costruzione di una rosa dei venti sulla carta geografica. In entrambi i casi si tratta di una forma di meditazione”. Si adattava perfettamente al mio stato d’animo e credo possa valere anche per il Cartografo. E’ tratta da Il Sogno di disegnare il Mondo, un libro di James Cowan, nomadico autore australiano, che racconta la vita di Fra Mauro, monaco e cartografo del XV secolo che ha dedicato la vita a disegnare il mondo allora noto, basandosi a sua volta sui racconti di viaggiatori, marinai e mercanti.
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Nel frattempo, alle mappe dei sogni e agli antichi planisferi si erano sovrapposte quelle delle possibili rotte dell’aereo fantasma del volo MH370, Che a loro volta, almeno inizialmente, intersecavano quelle del Mar della Cina del Sud, possibile teatro di un’altra guerra mondiale o di guerre locali ad alta intensità.
Anche di questi scenari e intrighi avevo chiacchierato con il Cartografo. «I cartografi sono un po’ come le spie» aveva detto. Si riferiva ai tempi del Grande Gioco (il Torneo delle Ombre lo chiamavano i russi), quando molti degli uomini che tracciavano le carte dell’Asia erano agenti di qualche potenza imperiale. Ma forse non pensava solo a quei tempi: le grandi agenzie d’intelligence come lo U.S. Special Operations Command (USSCOM) stanno riscoprendo la necessità di integrare i dati geospaziali con rilievi sul terreno per pianificare meglio le azioni nelle Zone Oscure del Pianeta. E’ la riscoperta dell’humint, l’intelligence umana. L’intelligence, nel senso di “capacità di apprendere o comprendere cose o riuscire ad affrontare nuove e difficili situazioni”, è qualcosa che non può essere affidato a una macchina, né ai dilettanti. Il che vale per la cartografia, lo spionaggio e ogni altra attività. Ma questa è un’altra storia.
Oppure no? La cartografia, la geografia, in questo caso, divengono una metafora dei cambiamenti e degli adattamenti che l’uomo dovrebbe affrontare, rovesciando la prospettiva di Marshall McLuhan: il medium NON è il messaggio. Lo dimostra Robert D. Kaplan, capo analista di Sratfor, “prolifico viaggiatore e stratega”. “Il mondo non è piatto, la geografia (come la storia, aggiungo) non è morta”… “Il territorio e i legami di sangue che vi scorrono sono al centro di ciò che ci rende umani” ha scritto nel recente articolo Geopolitics and the New World Order. E’ in quest’ottica, ad esempio che si può comprendere e, soprattutto, si può giocare la partita nel Mar della Cina del Sud (oggetto dell’ultimo libro di Kaplan, Asia's Cauldron: The South China Sea and the End of a Stable Pacific), divenuta il vero fulcro del confronto tra civiltà orientale e occidentale.

«La terra è una mappa. Non c'è geografia senza significato e senza storia». Così mi ha detto un vecchio aborigeno Warlpiri incrociato nel Grande Centro Rosso australiano.


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C’era una volta un M16

La guerra del Vietnam è finita. Anche se i reduci sono vivi. Anche se vive nella curiosità morbosa dei turisti. E’ più che finita: è storia. Ne ho la prova: un M16, il fucile d’assalto americano che ha fatto il suo debutto proprio in Vietnam, nel 1967.
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Non è più un’arma. E’ un reperto, quasi un fossile.
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E’ incrostato di conchiglie, concrezioni marine. E’ stato ripescato sul fondo del fiume dei profumi, a Hue, antica città che fu che fu centro commerciale, capitale dell’impero vietnamita e, molti secoli dopo, teatro dell’offensiva del Tet, una delle più feroci battaglie della guerra “americana”, come la chiamano qui.
Quel fucile è un reperto come le anfore per la preparazione del nuoc mam, la salsa di pesce, le ciotole per cucinare il riso, le ancore di pietra o i pesi per le reti. Migliaia d’oggetti della collezione di Ho Tan Phan, vecchio, sorridente signore che si definisce un erudito e da quasi quarant’anni raccoglie ciò che gli portano i pescatori, gli uomini dei sampan. A prima vista la sua casa e il suo giardino appaiono come la tana di un accumulatore compulsivo. Poi ci si rende conto che è una specie di magazzino storico. Tra ceste piene di pezzi di porcellana cinese e cumuli di vasi, piccole anfore, oggetti d’uso comune, si scoprono pezzi di grande bellezza e valore, come alcune ciotole di ceramica celadon.
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Di ogni cosa ti chiedi a chi appartenesse, a quali vicende umane sia legato, come sia finito in fondo al fiume. Tanto più tenendo tra le mani quel fucile.
E’ la poesia del mistero. Fa ricordare i versi di Baudelaire:
“Come lunghi echi che da lontano si confondono
in una tenebrosa e profonda unità”.

L’eco si riverbera nella mente: la storia non finisce mai.
Una scena di Full Metal Jacket. La battaglia di Hue.
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