Un bel morir

Il 22 settembre scorso (un giorno dopo il mio compleanno) è morto lo scrittore colombiano Alvaro Mutis. L’ho scoperto, con dolore, solo pochi giorni fa. Dolore accentuato dalla consapevolezza della mia disattenzione, non giustificata dallo scarso rilievo dato alla notizia.

Anche nella morte Mutis diviene così uno di quei personaggi la cui storia e le cui storie si sono intrecciate alla mia vita in modo casuale, inconsapevole, spesso voluto o provocato: Ilona che arriva con la pioggia o la filosofia politica, il marinaio o il politicamente scorretto. Molti, forse troppi, i ricordi personali legati a Mutis e ai suoi protagonisti. Quante volte ho citato sue frasi facendole mie, ho ricercato o ricreato le scene delle sue avventure, ho interpretato i suoi avventurieri (specie con le donne), ne ho parlato con gli amici con cui ho condiviso il cammino.
Ora vorrei solo ricordarlo: come un Maestro, un compagno di viaggio e d’avventura. Lo faccio nel modo più semplice, assecondando una pigrizia che i suoi personaggi giustificherebbero, riprendendo una brevissima storia (poche righe, le mie) scritta molti anni fa di ritorno da un viaggio in Amazzonia, in un momento d’incertezza della mia vita. Come se ce ne fossero di certi.

Il viaggio e la riflessione in viaggio amplificano angosce, incubi, solitudine. L’ambiente dell’avventura, la natura selvaggia possono provocare attacchi di panico. E’ la sindrome Cuore di Tenebra. Il romanzo di Conrad – tutta la sua opera - la rappresenta in modo totale, come compagna esistenziale di chi segue la via dell’avventura. Ma la definizione perfetta, forse, la troviamo nella “Summa di Maqroll il Gabbiere”, antologia poetica di Alvaro Mutis, lo scrittore colombiano che ha ridato valore letterario al puro romanzo d’avventura: “Nel mezzo della selva, nella più oscura notte dei grandi alberi, circondato dall’umido silenzio sparso dalle foglie enormi del banano silvestre, il Gabbiere conobbe ma paura delle proprie miserie più segrete, il terrore di un grande vuoto in agguato dietro i suoi anni pieni di storie e paesaggi. Tutta la notte rimase il Gabbiere in una veglia dolorosa, aspettando, temendo la frana del suo essere, il suo naufragio tra le acque vorticose della demenza. Da queste ore amare d’insonnia rimase al Gabbiere una ferita segreta da cui sgorgava a volte la linfa tenue di una paura segreta e innominabile. Il frastuono dei cacatua, che attraversavano in stormo la distesa rosata dell’alba, lo restituì al mondo dei suoi simili e tornò a porre nelle sue mani i soliti attrezzi dell’uomo. Né l’amore, né la disgrazia, né la speranza, né l’ira ritornarono a essere gli stessi dopo la sua veglia terrificante nella solitudine bagnata e notturna della selva”.
La mia copia sgualcita e sporca di quel libro si apre quasi sempre alla pagina di questo brano, intitolato “Solitudine”. Lo trovo consolatorio, come se condividere i demoni, i terrori di un personaggio letterario potesse in qualche modo aiutarmi a combattere i miei. Ma io non riesco a descriverli. Nei miei taccuini di viaggio appaiono solo in appunti confusi. Ma a ricordarmi dove e quando ho vissuto le mie ore d’angoscia, trovo sempre scritto un richiamo a quella pagina di Mutis.


E adesso. Adesso non sto tornando dall’Amazzonia, sto ripartendo per non so dove, aspetto la pioggia ma forse Ilona non mi aspetta più.


Amen
Che la morte ti accolga
con tutti i tuoi sogni intatti.
Di ritorno da una furiosa adolescenza,
all'inizio delle vacanze che non ti hanno mai concesso,
la morte t’individuerà con un suo primo avviso.
Aprirà i tuoi occhi alle sue vaste acque,
t’inizierà nella sua brezza costante d'altro mondo.
La morte confonderà i tuoi sogni
e in essi riconoscerà i segni
da lei lasciati un tempo,
come un cacciatore che di ritorno
riconosce le sue tracce sull'aperto sentiero.


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