La corsa della Storia e della Pace

Venerdì 12 ottobre alle 11 ora dell’Europa Centrale, 16.30 ora birmana, sarà annunciato il vincitore del Nobel per la pace.
Tra i candidati compare anche Thein Sein, presidente della Repubblica dell’Unione del Myanmar (nome ufficiale della Birmania): per Kristian Berg Harpviken, direttore del Peace Research Institute of Oslo (Prio), un centro di studi indipendente, Thein Sein è uno dei cinque favoriti tra le 231 nomination valide prese in esame dal Norvegian Nobel Committee.
Nelle parole del fondatore del premio, Alfred Nobel, quello per la pace deve essere assegnato a chi “abbia fatto il massimo o il meglio per la fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per l’organizzazione e la promozione di accordi di pace”.
In questo senso, per Harpviken, Thein Sein è papabile: perché “sta dirigendo un processo di pace che sta gradualmente evolvendo nel paese. La costruzione delle pace è al centro del mandato del Nobel, e molti premi sono stati assegnati sia ai mediatori sia ai rappresentanti principali delle parti in conflitto”.
Il premio a Thein Sein può essere oggetto di controversie. Il presidente birmano, infatti, ha fatto parte di quella stessa giunta militare che per molti anni ha dominato la Birmania in una delle più brutali dittature della storia contemporanea.
Tuttavia, come dice Harpviken, il Comitato del Nobel ha spesso sottolineato che “il premio non è solo per i santi” e, negli ultimi anni, “sempre più ha dimostrato di voler influire sugli eventi in corso, anche se ciò può comportare gravi rischi”.
Da quando è stato eletto presidente, nel febbraio 2011, non c’è dubbio che gli “eventi in corso” in Birmania abbiano subito una straordinatria accelerazione: dalle elezioni suppletive in cui Aung San Suu Kyi (vincitrice del Nobel per la pace nel 1991 proprio per la sua opposizione al regime) è stata eletta in parlamento, alle recenti dichiarazioni di Thein Sein, secondo cui non si opporrebbe alla presidenza della Signora, se vincesse le elezioni del 2015. Tanto che la stessa San Suu Kyi ha ammesso: “Il Parlamento è più democratico di quanto mi aspettassi”.
Per alcuni il comportamento di Thein Sein nasce dalla sua profonda volontà di guadagnare meriti a riscatto di un karma macchiato dalle colpe precedenti. Per la maggioranza, è un calcolo strategico. Il “compromesso storico” birmano, infatti, è l’unica possibilità per il paese di giocare su più tavoli. Lo chiarisce un articolo di un funzionario birmano approvato “dalle più alte autorità”: “Non vogliamo che la nostra nazione divenga un satellite cinese”. La strada per la democrazia, in questo caso, è lastricata dalla fine dell’embargo e miliardi in aiuti economici, ed ha come meta finale la metamorfosi della Birmania nell’ennesima Tigre Asiatica.
L’ostacolo maggiore è rappresentato dai conflitti con le diverse etnie che compongono il paese e in cui l’esercito è stato accusato, e si è macchiato, di ogni genere di violazione dei diritti umani. Il governo di Thein Sein ha stabilito accordi di cessate il fuoco con 10 degli undici gruppi armati etnici, ma la tregua rimane fragile e continuano i combattimenti nello stato dei Kachin, dove la guerra ha già provocato migliaia di morti e decine di migliaia di trasferimenti forzati della popolazione. Secondo i rappresentati dei gruppi etnici, quindi, l’accelerazione degli eventi in corso è sin troppo rapida e rischia di sacrificare sull’altare dell’economia i diritti dei popoli in uno sviluppo segnato da ancor più profonde disuguaglianze e da una gestione del territorio senza scrupoli. Per qualcuno la stessa Aung San Suu Kyi è divenuta complice di Thein Sein per non aver denunciato gli attacchi governativi ai Kachin, “Non voglio buttare benzina sul fuoco” ha risposto la Signora, che quindi è stata accusata di aver tradito i suoi ideali umanitari.
In questa prospettiva il Nobel per la pace a Thein Sein si può davvero rivelare una scommessa molto azzardata: può legittimare definitivamente il suo governo e giustificare in nome di un bene superiore nuove repressioni etniche e un incontrollato sviluppo a spese degli ennesimi dannati della terra. Ma può anche rivelarsi un passaggio decisivo verso la democrazia, pur con tutti i suoi limiti, e portare a quella conferenza di riconciliazione civile che segnerebbe la pax birmana dopo quasi oltre sessant’anni di guerra civile.
Quando, ad aprile ho scritto: “non ci sarebbe da stupirsi - forse è auspicabile - se il presidente Thein Sein fosse premiato con il Nobel per la Pace”, paragonandolo a Frederik Willem de Klerk, ultimo presidente del Sudafrica dell'apartheid (e quindi paragonando Aung San Suu Kyi a Nelson Mandela), molti hanno giudicato quella frase una provocazione, un’eccentricità, un’ipotesi fantapolitica.
Invece, comunque vada a finire questa storia, è chiaro che la Storia sta subendo un’accelerazione.
Disse Sant’Agostino: “Solvitur ambulando”.

La conferenza di Thein Sein alla Asia Society di New York il 27 settembre scorso (con traduzione). Sotto: il video completo (sempre della Asia Society) della visita di Aung San Suu Kyi a Washington D.C.

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