Sul filo del rasoio

“Difficile è il passo sul filo tagliente di un rasoio: così i saggi dicono che è ardua la via della salvezza”. E’ un passo della Katha Upanishad, una delle più antiche scritture della religione hindu, detta anche “La Morte come Maestra”. E’ citato in apertura del romanzo di W. Somerset Maugham Il filo del rasoio.
img008_2Stesso titolo e analogie esistenziali in un libro appena uscito: Razor’s Edge, autobiografia di Peter “Razor” Slade. Un uomo con molti interrogativi. «Sono un mercenario? Sono un consulente per la sicurezza? Sono un imprenditore militare privato? Sono un free lance o, come certi dicono oggi, sono un deniable, un uomo che viene sconfessato? Sono un po’ di tutto questo, forse?».
Slade, australiano, ha combattuto la sua prima guerra in Vietnam, dove arriva nel ’68 e ci resta sino al ’70. Da allora, salvo rari momenti di quiete, non ha mai smesso di combattere, in un modo o nell’altro. Nel 2005, a 57 anni, quando molti pensano alla pensione, è partito per l’Iraq. Lo tsunami che aveva colpito l’isola di Phuket, in Thailandia, dove viveva e vive con la moglie Nen, lo aveva rovinato. Non poteva far altro che firmare come security contractor per guidare i convogli che attraversavano il paese. In sette anni ha compiuto mille missioni. Poi ha deciso che era arrivato il momento di tornare a casa. Non che si fosse stancato, aveva litigato.
È contento di vedere che il suo libro abbia suscitato interesse. Più ancora che ci sia qualcuno che vada a trovarlo per ascoltarlo. Forse perché per troppo tempo è vissuto nell’ombra della “deniability”, un’ossessione per lui. E’ un termine ambiguo, rappresenta un concetto che lo è ancor di più: un potente giocatore manovra le sue pedine senza mai apparire, tanto pronto a sacrificarle quanto abile nell’attribuire ad altri le mosse sbagliate.
Slade materializza l’immagine del contractor nel fisico, per come parla, si presenta, in particolari come lo Zippo decorato da emblemi militari. Ma infrange anche molti stereotipi. Proprio per il suo voler uscire dall’ombra della deniability, ripete la necessità di regole. Paradossalmente, ma non tanto, delinea l’immagine del contractor ideale descritto da Laura Dickinson del “Center for Law and Global Affairs”. Nel saggio Outsourcing War and Peace: Preserving Public Values in a World of Privatized Foreign Affairs, la Dickinson cerca di definire nuove regole affinché i contractor si adeguino ai valori condivisi di diritti umani, rispetto dei principi di democrazia, trasparenza.
Ma soprattutto Razor esce da quelli che lui chiama “i suoi silenzi”. Parla. Parla moltissimo, quasi ininterrottamente, le parole che inseguono «mille pensieri di continuo».
Così, almeno per me, lo Starbucks del centro commerciale Jonceylon di Phuket, diventa come il cafè del porto di Tolone descritto dall’Io narrante del romanzo di Maugham: “fa l’effetto di un capolinea dove convergono tutte le vie del vasto mondo”. E come in quel romanzo il narratore entra nella trama, così, ascoltando Razor, scorrono immagini di luoghi che conosco, scene di cui ho visto tracce e macerie, storie di cui ho incontrato altri reduci. Il senso delle sue domande potrei farlo mio: in fondo la differenza tra un free lance che interpreta le storie e uno che le racconta sta anch’essa sul filo di un rasoio. In entrambi i casi si patiscono simili “danni collaterali”, come li chiama Razor: problemi con gli amici, la famiglia. Allo stesso modo ti senti in una “comfort zone” quando ti trovi in una situazione che ti coinvolge profondamente.
«La guerra è una droga. Non per il combattimento, ma per l’ambiente» dice Razor. E non si riferisce solo all’“hostile environment”. Pensa all’amicizia che la guerra crea, a quella che in Australia chiamano “mateship”, la fratellanza, da mate «che non è solo un amico, è uno a cui affidi la vita». Come scrisse Hemingway, la guerra è male, ma c’è qualcosa nella guerra che, oltre al peggio, tira fuori anche il meglio degli uomini.
Razor s’inserisce in una cultura anch’essa deniable, negata, dichiarata falsa, scorretta. Quella analizzato dal filosofo James Hillman in Un terribile amore per la guerra, dove, frantumando la retorica politicamente corretta, ci spinge dentro “lo stato marziale dell’anima”. E’ quella raccontato da Sebastian Junger in War, cronaca e riflessione della sua esperienza da embedded in Afghanistan. Da quell’esperienza Junger e il fotografo Tim Hetherington (ucciso nel 2011 in Libia) hanno anche realizzato il documentario Restrepo. Libro e documentario sono una meditazione sulla guerra come condizione senza tempo dell’uomo. La guerra è ciò che Junger definisce “la difesa della tribù”, un istinto ancestrale. “La difesa del gruppo può rivelarsi così istintiva, può dare una tale dipendenza, che diviene la ragione stessa per cui il gruppo esiste…I ragazzi non combattono per la libertà o per patriottismo. Combattono perché sanno che possono essere uccisi”. Istinto che riappare nel saggio What It Is Like to Go to War di Karl Marlantes, che ha combattuto in Vietnam e ha già raccontato la sua esperienza in un romanzo divenuto bestseller: Matterhorn (qui in una recensione di Sebastian Junger).
Ma queste sono considerazioni che verranno dopo, quando cercherai di affermare le negazioni, esorcizzare le paure, sciogliere i dubbi. «Chi sono i buoni e chi sono i cattivi?» è la domanda che Razor ripete spesso e ti contagia.
Ascoltando Razor, d’un tratto, come il narratore del libro di Maugham, prendi le distanze, sei messo di fronte alle differenze. Come quando, indicando tante foto nel suo libro, Razor ripete: «Lui è morto, lui è morto, lui è morto, lui è morto…lui è morto…». Poche le morti per malattia. Un suicidio.
Quel filo di rasoio s’interseca sottilmente con molti altri, diventa una ragnatela tagliente. E senti il bisbiglio registrato del Colonnello Kurtz di Apocalypse Now. “Ho osservato una lumaca strisciare lungo il filo di un rasoio, questo è il mio sogno, è il mio incubo: strisciare, scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere”.
Quel senso d’angoscia si scioglie a casa di Razor, nel nord di Phuket, in un gruppo di villette circondate da un piccolo giardino ombreggiato dagli alberi che sembra un quartiere di una cittadina dell’outback australiano. Respiri un’atmosfera quieta, mangiando un mango fresco, bevendo un succo di frutta preparato da una sorridente Nen, finalmente serena. La presenza di Razor l’avverti solo nella stanzetta dove lavora e conserva i suoi cimeli. Uno dei più preziosi è l’amaca di un soldato vietcong, ripiegata con cura assieme a molte bandiere. Emanano un leggero odore di naftalina.

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Nella sezione Storie pubblico il capitolo introduttivo di “Razor’s Edge”. Ringrazio “Razor” per la concessione (e permettermi di chiamarlo così). Già da questa introduzione si capisce che il libro si presta a diverse chiavi di lettura: da parte del pubblico “normale” oppure degli addetti ai lavori. E’ una storia che può rivelarsi sgradevole, a tratti oscura. Come molte altre parti del libro. Ma è autentica.

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Il Maestro sul Tetto

«Quando il discepolo è pronto, il maestro appare» recita un detto. Non so se sono pronto, anzi non credo. Ma il Maestro mi è apparso. Era poco prima del tramonto, sopra il Chao Phraya, il fiume che attraversa Bangkok, sullo sfondo la torre di una pagoda. Non che si librasse nel vuoto. Si trovava anche lui sulla terrazza fiorita che fa da tetto al Baan Chao Phraya, il grande, alto condominio dove abito.
Il Maestro si chiama Jackie Ho. Un nome che sembra finto, tanto suona da Maestro o riecheggia quello di Jackie Chan. Ma Jackie Ho fa il cuoco. Per la precisione è l’Executive Chef di tutta la cucina cinese del Peninsula Hotel, uno dei più lussuosi alberghi della capitale del Regno di Thailandia. In precedenza ha ricoperto lo stesso incarico alla stupenda China House, il ristorante dell’Oriental Hotel. Ha lavorato anche in Indonesia, in Cina e a Hong Kong, dov’è nato. E’ considerato un Maestro della cucina cantonese.
Ma non è per questo prestigioso curriculum che ho chiesto di diventare un suo allievo. Quella sera si muoveva veloce, concentrato, preciso e potente in una forma di kung fu. Gli ho chiesto se fosse disposto a insegnarmela e lui ha acconsentito. Quindi, stando all’antica regola, è divenuto il mio Shifu, Maestro. O quasi, dato che per utilizzare questo termine dovrei essere accettato “formalmente”, con tanto di cerimonia, quale suo allievo.
Solo in seguito gli ho chiesto qual era l’arte marziale che praticava. Si chiama Hung Fut Pai ed è uno stile che deriva, come tutti, da quello elaborato nel monastero di Shaolin. E’ poco noto, dalla storia incerta, almeno per chi, come me, non abbia la capacità di consultare testi cinesi. Il Maestro Jackie l’ha imparato a Hong Kong, da bambino. E ha continuato sempre a praticarlo. Secondo lui è il più efficace, anche per difendersi da banditi di strada, come gli è capitato. Mostra una cicatrice da coltello sull’avambraccio. «Ma sono finiti tutti per terra» dice ridendo.
Da quella sera è iniziato il mio percorso da allievo. Ogni mattino alle 8 vado sul terrazzo sul tetto. E aspetto. A volte il Maestro arriva e riprende a insegnarmi i passaggi della forma base dell’Hung Fut Pai – non so ancora quanti movimenti comprenda – più spesso non c’è e io provo a ripetere quelli insegnati la volta precedente, in genere con scarso successo. Tra noi c’è una specie di tacito accordo: non fissiamo appuntamenti, né giorni, né ore. Lasciamo decidere al caso, alle coincidenze. A volte manchiamo l’incontro per pochi minuti e lo scopriamo casualmente incrociandoci sul battello che va e viene da casa.
Secondo Jackie, per imparare quella prima forma ci sarebbe voluto un mese, ma solo dopo un mese ho capito che intendeva trenta lezioni. Il che significa che dovrà trascorrere molto tempo. Intanto è un modo per esercitarsi alla pazienza, per iniziare le proprie giornate con un impegno. Non importa se non si concretizza, ti dà l’occasione di godere degli ultimi momenti di fresco sul tetto prima che sia raggiunto dalle prime vampe di calore stagionali, smaltire le tracce del sonno e dei sogni, concentrarsi sul corpo, il respiro, il sangue che scorre, i piccoli dolori.
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Questa è una di quelle storie che nella tradizione giapponese (sì, spaziamo e contaminiamo le culture) si chiama zuihitsu, segui il pennello, facendo riferimento al fatto che i pensieri vi sono raccolti liberamente, facendo correre la mano che traccia i caratteri. Potrebbe essere paragonato a uno zibaldone o a una raccolta di pensieri sparsi che lascia ampia libertà all’autore. In realtà è un vero e proprio genere letterario (che prese forma nel periodo Heian, tra il 794 e il 1185 dell’Era Comune) e si riferisce a una raccolta di brevi componimenti in cui “le osservazioni e le riflessioni di chi scrive sono presentate con grazia stilistica”.
Grazia e stile a parte, questa storia è un pretesto per riflettere sulla casualità, sulle sorprese che ci riserva il mondo, tanto più in questa parte di mondo, dove il caso è inglobato nell’ordine naturale delle cose, fa parte di una trama. Insomma non è un caso.
E’ per questo che il Maestro appare.

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