Il villaggio dei Fiori di Luna

“Dok-mai chan”: in thai significa fiori di legno di sandalo. Con leggera variazione di tono, significa “i fiori di luna”. Sono fiori artificiali, composti da sottili strisce di corteccia, usati nelle cerimonie funebri. Sono preparati con delicatezza e precisione, anche nelle forme più povere in carta o legni meno pregiati, dalle donne del villaggio di Bang Sue.
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In realtà non è un villaggio, è un distretto di Bangkok, uno dei suoi slum. E’ considerato uno dei più pericolosi, covo di trafficanti di yaa baa, la metanfetamina che fa impazzire i poveri dell’Asia, vivaio di killer che si reclutano per cento dollari, di bambine avviate alla prostituzione e di bambini venduti a ricchi signori. Le donne che non vogliono o non possono più prostituirsi, le vecchie, le malate di aids, preparano i fiori della luna. Guadagnano circa 2,5 baht al pezzo, circa sei centesimi d’euro.
Nella palude su cui sorge il villaggio dei fiori di luna e in tutti gli slum inglobati in questa megalopoli si alimentano i semi della rivolta di cui si è appena concluso il primo atto. Non si possono sradicare, sono come i serpenti d’acqua. Bisogna bonificare la palude.
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I cani di Bangkok

L’altra notte, in una Bangkok che il coprifuoco ha disconnesso dalla sua realtà, ho sentito i cani. E mi è venuto in mente l’incipit di Insallah, di Oriana Fallaci. Lo sono andato a cercare…

“La notte i cani randagi invadevano la città. Centinaia e centinaia di cani che approfittando dell’altrui paura si rovesciavano nelle strade deserte, nelle piazze vuote, nei vicoli disabitati, e da dove venissero non si capiva perché di giorno non si mostravano mai. Forse di giorno si nascondevano tra le macerie, dentro le cantine delle case distrutte, nelle fogne coi topi, forse non esistevano perché non erano cani bensì fantasmi di cani che si materializzavano col buio per imitare gli uomini da cui erano stati uccisi. Come gli uomini si dividevano in bande arse dall’odio, come gli uomini volevano esclusivamente sbranarsi, e il monotono rito si svolgeva sempre con lo stesso pretesto: la conquista d’un marciapiede reso prezioso dai rifiuti di cibo e dal marciume…”.

E’ più bello di come lo ricordassi. E mi è sembrato perfetto per quella notte di Bangkok, dove bande di fantasmi si davano la caccia. Poi ho ascoltato e guardato meglio la notte. Mi sono focalizzato sulle guglie di un tempio, sulle luci sopra i grattacieli. L’abbaiare dei cani suonava meno inquietante. Erano gli stessi che vedevo durante il giorno, sonnecchiare nella calura. E si sentiva anche il frinire degli insetti.
No, Bangkok non è Beirut.
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Quale Democrazia, quale Religione?

«Quale democrazia vogliono in Thailandia? » chiede J.S., videogiornalista indipendente, birmano. Per lui la sproporzione tra ciò che accade a Bangkok e a Rangoon è incommensurabile. La richiesta di democrazia da parte di manifestanti che occupano il centro della città da quasi due mesi, incomprensibile. Il fatto che ciò accada, per J. che ha vissuto la dittatura birmana, è una prova di democrazia.
Per altri, vissuti nelle democrazie occidentali, la democrazia è divenuta un’icona, un mito. Una religione. Ogni trasgressione alle sue regole – e la Thailandia ne ha infrante molte – è un peccato mortale.
«Alla fine è sempre una questione di parole: democrazia, religione» dice Manit, maestro di meditazione al Wat Mahatat, uno dei più venerati monasteri di Bangkok. «Dovremmo essere più concentrati su noi stessi prima di pensare a che cosa è bene per tutti gli altri. Se non conosciamo noi stessi, come possiamo pensare di conoscere gli altri?».
Per un occidentale è l’ennesimo paradosso. L’egocentrismo diviene una virtù, in contrapposizione alla forza distruttiva dell’altruismo.
«Questo è uno dei grandi vantaggi del buddhismo, amico mio» dice Manit «Non è orientato ai risultati. Non c’è alcun modo in cui tu possa influire sul destino degli altri. Puoi farlo solo sul tuo».
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Bangkok 2012

Dopo due mesi della surreale rivoluzione thailandese che sino a oggi ha provocato 29 morti e un migliaio di feriti, non si sa come andrà a finire. Ogni ora si alternano notizie diverse. Il governo ha proposto una road map per la riconciliazione. I “rossi”, hanno accettato il dialogo con molti se e ma, e continuano a occupare il centro di Bangkok. I “gialli”, gli ultraconservatori dell’Amatya, l’élite, gridano al tradimento. L’esercito è diviso tra falchi e colombe. Ogni analisi secondo la logica lineare occidentale, qui e ora, entra in corto circuito. La Thailandia potrebbe rivelarsi il Cigno Nero dell’Oriente: un evento raro, di grandissimo impatto, prevedibile solo a posteriori. In questa prospettiva lo scenario di una Bangkok da medioevo prossimo venturo, oltre che molto simile alla realtà, rischia di apparire probabile.

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