May 2014

Cicero pro domo mea

«Libertas, quae non in eo est ut iusto utamur domino, sed ut nullo» scrisse Marco Tullio Cicerone. “La libertà, che non consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno”. La citazione è tratta dal De re publica (II, 43). Scritto tra il 55 a.C. e il 51 a.C - ossia duemila e settanta anni fa - è un trattato di filosofia politica sul modello de La Repubblica di Platone, là dove appare un altro formidabile aforisma: «Felice la nazione i cui filosofi sono re e i cui re sono filosofi”.
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Confesso un peccato grave: avevo dimenticato Cicerone, Platone e altri giganti della mia cultura occidentale, italiana. Lo ammetto: ho ripensato a Cicerone leggendo un romanzo che lo ha per protagonista. Non un libro fenomenale, ma mi è apparso come un caso di sincronicità. Le “coincidenze significative”, come sono chiamate le manifestazioni di questo fenomeno, erano tante: nella Roma di Cicerone e nella Bangkok di oggi (dove un Cicerone non c’è e nemmeno un Cesare, ma molti Catilina) si ritrovano le discussioni sulla libertà e sulle sue limitazioni, colpi di stato, patrizi e plebei, indovini e presagi, tribuni del popolo e candidati al consolato.
Ma non sono queste le coincidenze più significative. Sulla Thailandia, alla fine, si sta già dicendo troppo o troppo poco. Quel caso di sincronicità mi ha indotto a una nuova riflessione sui diversi modi di percepire cultura, civiltà, progresso.
Quando torno in Italia, come parlando con italiani in viaggio o residenti all’estero, sento ripetere un lamento: sembra che non ci sia differenza tra Thailandia o altri paesi dell’area ed Europa o, soprattutto, Italia. Anzi, nel confronto il Belpaese esce a pezzi. Tanto più nelle proiezioni future. Dimenticando che la realtà di paesi come la Thailandia la viviamo in maniera privilegiata. Vediamo ma non osserviamo, non analizziamo. Insomma: non sappiamo. Il golpe in Thailandia, l’introduzione della sharia in Brunei, le violazioni dei diritti umani nei paesi dell’aerea ci appaiono fenomeni marginali rispetto alla crisi economica che segnerebbe il tramonto dell’Occidente. Siamo talmente focalizzati su noi stessi da scordarci di che cosa facciamo parte, del nostro sistema sociale, dei nostri valori.
Ci scordiamo Cicerone. Della nostra cultura, della nostra realtà. O peggio, non conosciamo la prima e non riusciamo ad apprezzare la seconda. In questo, sì, siamo globalizzati in un mondo di realtà virtuale dove l’informazione è autoreferenziale, dove la connessione crea incomunicabilità.
E’ una riflessione che vale anche al contrario, per gli altri. Gli asiatici, infatti, specie in Thailandia, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che i loro paesi non sono pronti per la democrazia, che per loro non si possono ancora applicare i valori dell’occidente. Al tempo stesso, però, contestano quegli stessi valori in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe proprio dal mantenere immutati i propri valori.
Invece è proprio nei beni definiti “immateriali” - quali la governance, l’innovazione, the rule of law, il welfare, la cultura della libertà di pensiero - che l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.
Come Cicerone.
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Le illusioni della povertà

Donne sedute sui talloni, avvolte in sari colorati. Una posizione d’eleganza congenita che molte donne occidentali tentano invano di assumere.
In Bangladesh è una delle cause del prolasso della cervice. Dopo il matrimonio precoce, le numerose gravidanze, il lavoro nei campi.
Siedono così sul ponte della “Rongdhonu”, nave che Greenpeace ha ceduto a Friendship, organizzazione che ha per obiettivo l’assistenza medica nelle zone più povere e isolate di uno dei paesi più poveri e isolati del mondo. Una di queste, la più povera e isolata, è nel Golfo del Bengala, là dove il Gange e il Brahmaputra si congiungono in un immenso delta di paludi e basse terre. Ciclicamente devastato da cicloni e sommerso dai flussi di marea. Un mondo d’acqua dove non si trova acqua potabile.
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Alcune di quelle donne sono fortunate: vengono operate da un team di dottoresse venute dagli Stati Uniti. Altre meno. Come quella che forse ha il cancro – non lo sa con certezza, forse lo scoprirà morendo. Non appare sconvolta. Là dove la più comune malattia può rivelarsi fatale, il cancro è una malattia come le altre. Continuo a osservarla mentre torna a terra a bordo di una nouka, una malconcia barca da pesca, che fa la spola tra la riva e la nave ospedale col suo carico di donne in sari. Poco a poco, con la lontananza, appare quasi una scena dipinta da Gauguin. In posti come questo la prospettiva, la distanza, non sono più un punto di vista, creano un paradosso illusorio.
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La miseria crea la bellezza e la pura bellezza è fatta dalla miseria. Come la donna che trascina una rete camminando nel fiume. Non senti il peso della rete e il fango sul fondo, lo sforzo che giorno dopo giorno provoca il cedimento degli organi pelvici. Vedi solo un colore che si riflette nella corrente.
Sul ponte del Rongdhonu, invece, sei vicino: senti gli stessi odori, lo stesso calore, vedi le donne che attendono la visita, quelle ricondotte in barella sul ponte dopo l’operazione: addormentate, sono deposte su una branda da altre donne perché gli uomini, secondo i precetti dell’Islam, non possono toccarle. La convalescenza avverrà qui, riparate da un tendone, per due o tre giorni. Sotto una branda, la sacca del catetere è accanto a una pentola di dahl, la zuppa di lenticchie.
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E’ l’ennesimo paradosso: sono state operate da un team d’altissimo livello ma poi, in un passaggio spazio-temporale che forse ricorderanno come un sogno, sono ricondotte alla loro condizione umana naturale.
Accade lo stesso, all’inverso, per le dottoresse e le infermiere americane. Passano da una sala operatoria che, pur con molti limiti, risponde agli standard occidentali, a una corsia sul ponte di una nave che ogni giorno di più somiglia a una vecchia carretta. Ma non hanno tempo di percepire il contrasto. Queste donne sono la dimostrazione che l’impatto tra culture può generare energia positiva.
I miraggi scompaiono con la notte. E’ un momento di quiete. Si vedono le stelle, anche perché non ci sono luci a terra a offuscarle. L’aria rinfresca. Sul ponte si ricrea l’atmosfera di un villaggio: le pazienti sono accudite dai parenti, c’è chi mangia e chi si stende sul ponte sopra una stuoia tenendo accanto i bambini più piccoli. I pochi uomini presenti chiacchierano tra loro a bassa voce.
Sul ponte superiore, ai lati della plancia, il comandante e qualche marinaio pregano rivolti a ovest. Il motorista mi porta un tè scuro e zuccheratissimo, ricambio con una sigaretta. Racconta che più a sud, tra le foreste di mangrovie di Sundarbans ci sono i pirati. Poco prima, scendendo la corrente, c’è Bani Shanta, una lingua di fango e capanne, dove vivono un centinaio di prostitute. Pirati e puttane dipendono dal traffico nel delta: cargo che trasportano merci che non valgono l’assicurazione ed equipaggi che hanno valore solo per le puttane.
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«Però è bello qui» conclude il motorista gettando l’ultima delle mie sigarette nel fiume.
E’ bello davvero, ma la quiete della notte dura poco. Due ore più tardi è squarciata da un temporale. Il vento rischia di strappare il telone che copre le brande delle donne operate. Bisogna levarlo, ma la pioggia è torrenziale. Le donne devono essere trasportate all’interno, al coperto e con loro tutte le famiglie che le assistono. Si ammassano in ogni spazio disponibile. Il calore accumulato dalle lamiere durante il giorno ristagna. I ventilatori cercano di disperderlo, poi si fermano: il generatore di bordo non regge lo sforzo.
Non è un ciclone, nemmeno una delle tempeste che scandiscono la stagione dei monsoni. E’ solo un temporale, ma ti fa comprendere l’impatto del clima dove si manifesta con più violenza, dove c’è solo un telone o il tetto di una baracca a proteggerti, mentre il terreno si trasforma in palude. Le grandi calamità naturali fanno decine di migliaia di morti in breve tempo, ma questo clima uccide comunque, lentamente. Ti distrugge giorno dopo giorno, per le malattie o l’impossibilità di restituire un prestito – magari destinato a una coltivazione di gamberetti sparita con una piena.
A bordo del Rongdhonu ritrovo un articolo messo da parte in previsione di questo viaggio e poi dimenticato. S’intitola Poor Choices. Che non significa scelte povere, bensì scelte sbagliate. E’ la recensione-riflessione su alcuni saggi che analizzano le radici della povertà estrema, la condizione di un miliardo di persone che vivono con poco più di un dollaro il giorno. Ma anche l’inadeguatezza del nostro modo di affrontare il problema. “La povertà presenta una sfida sia morale sia intellettuale” leggo. E mentre scrivo mi rendo conto, che la seconda è la più difficile da affrontare. Bisogna superare barriere concettuali e culturali ormai divenute quasi una legge morale. Come il sostegno a certe Ong locali utilizzate per entrare in politica. O l’adesione mistica al sistema del microcredito. Basterebbe ascoltare Shushuma, una donna di sessant’anni che ha chiesto un prestito di 10.000 taka (circa 95 euro) alla Grameen Bank al 18% d’interesse. Li ha dati al figlio, per quella coltivazione di gamberetti.
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