Buone e cattive. Non solo ragazze

Sul sito-blog Bangkok Diaries è stato pubblicato un lungo post - che ha innescato un interessante dibattito - sul comportamento sessuale delle donne thai. E’ un vero e proprio micro-saggio di antropologia della surmodernità, come fenomeno connesso allo sviluppo delle società complesse e alla sempre più diffusa globalizzazione.
In quanto tale va ben oltre le generalizzazioni e gli stereotipi ormai sovrabbondanti e retorici sul sesso in Thailandia, che nell’immaginario erotico occidentale appare popolata da poche “brave” ragazze e una miriade di “cattive” . Queste ultime ineluttabilmente corrotte dalla presenza dei farang, gli stranieri. In questo caso, invece, il fenomeno è analizzato oltre il manicheismo, nella sua complessità, nelle similitudini, nei contrasti e nelle interconnessioni tra cultura orientale (e buddhista) e quella occidentale. Senza giudizi morali e sociali.
Unica, vera pecca del post: è anonimo. Confermando, anche in questo caso, il tabù per cui di questo argomento non è lecito scrivere (parlarne è inevitabile, data la malsana curiosità di qualunque maschio occidentale cui si nomini la Thailandia).
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Il grafico del post: esempio di supermoderna complessità.
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Dio mio, come sono caduto in basso

“Putrefazione selvaggia, bagni di sudore, uomini alla deriva… Bangkok è tutto questo più sbuffi di basilico rancido e marijuana fredda che sembra espellere da narici invisibili…Ci si arriva quando si sente che nessuno ci amerà più, quando si getta la spugna. A pensarci bene la città è solo questo, il protocollo di una caduta”.
Dio mio come sono caduto in basso.
Almeno così pare, leggendo Bangkok, il romanzo-reportage di John Osborne, canonizzato come uno dei maggiori travel-writer contemporanei, novello Greene o Malraux. Ma se osservo il Chao Phraya, il fiume che scorre sotto le mie finestre, non lo vedo “scorrere limaccioso e violento”. Salvo che la violenza non sia quella delle onde dei battelli turistici.
Dio che drammatizzazione.
Bangkok può anche essere quella descritta da Osborne, in bello stile e con parecchie confusioni, ma lo è solo per i più pervicaci cacciatori di colore locale, né si può definire con quegli aggettivi, quegli stereotipi, quegli effluvi citati in queste prime righe e tratti dalle sue prime pagine.
Io posso anche essere caduto ma non ho gettato la spugna né sono alla deriva. Casomai nuoto controcorrente.
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Quando le anime si sollevano

Nel giugno 2003 ho realizzato un reportage ad Haiti, alla vigilia delle celebrazioni per i duecento anni della “prima repubblica nera al mondo”. Ne pubblico qui alcuni stralci. Da allora non ci sono più tornato e non so quanto il paese possa essere cambiato, ma il terremoto che ha devastato il paese induce a una riflessione: ancora una volta scopriamo gli orrori solo quando divengono un’Apocalisse. In compenso il 15 gennaio, alla televisione italiana ho ascoltato un vecchio cantante divenuto opinionista totale parlare commosso del terremoto. Se ho ben capito ricordava quando visitò quel paese, sulle orme di Marlon Brando, chiedendosi che fine avessero fatto i suoi amici. Fortunatamente per loro dovrebbero stare tutti bene. A Tahiti.

«Se uno non muore, può solo credere nei miracoli» sussurra un vecchio dal sorriso sdentato che incontro nella missione salesiana di Cité Soleil, l’agghiacciante bidonville di Port-au-Prince, che galleggia su una palude di rifiuti, attraversata da fogne a cielo aperto in cui scorrono rigagnoli le cui esalazioni si mescolano alla polvere della strada, rendendo l’aria gialla e densa, bollita dal calore.
Ammesso di non morire di fame, Aids, o una qualunque delle malattie endemiche che stanno decimando la popolazione di Haiti, ci vuole davvero un miracolo per sopravvivere nel paese più povero dell’emisfero occidentale, dove due terzi dei sette milioni d’abitanti hanno un reddito inferiore ai 25 dollari il mese (contro i 67 della confinante Repubblica Dominicana). Un paese dominato da bande armate battezzate “Chimere” come il mostro mitologico, che hanno annunciato la volontà di «tagliare le teste e bruciare le case dei bianchi». Un paese dove migliaia di bambini sono venduti come restavek (parola creola che deriva dal francese rester avec, restare con), piccoli schiavi che restano con chi li ha comprati, specie nella vicina Repubblica Dominicana.
Le maledizioni di Haiti sono queste. E superano in orrore ogni possibile fantasia evocata dal vudù, col suo immaginario di stregoni, zombi, possessioni e feticci trafitti da spilloni.

«Haiti ti induce a guardare in te. Per questo non vedo l’ora di andarmene» dice un funzionario della cooperazione. Riflessione che mi ricorda una citazione di Nietzsche: “Se fissi a lungo lo sguardo nell’abisso, anche l’abisso affonda lo sguardo in te”.
«Haiti ha istituzionalizzato la criminalità, viviamo una situazione colombiana, ma molto più sfasciata» dice Mauro Miedico, giovane, entusiasta avvocato italiano della Missione Civile Internazionale ad Haiti organizzata dall’ONU e dall’OEA, l’Organizzazione degli Stati Americani.

«La magia nera è azdé, condannata» assicura padre Bruno Gilli, missionario comboniano, etnologo e antropologo, uno dei massimi esperti in materia. Purtroppo, però, è divenuta il mezzo principale della lotta politica.

Tutto ciò è conseguenza di un paradossale percorso storico che ha trasformato la prima repubblica nera del mondo in “una caricatura del potere nero”. L’indipendenza di Haiti venne dichiarata il 31 dicembre 1803 dal generale Dessalines, figlio di schiavi. Che nell’ottobre dell’anno seguente si autoproclamò imperatore. Da allora questa storia si è sempre ripetuta, sino all’apoteosi del 1963, quando Francois “Papa Doc” Duvalier si fa nominare “presidente a vita”, si dichiara incarnazione del Baron Samedi, spirito tutelare degli Inferi e dei morti, instaura una tirannide di terrore magico e incorpora tra i ranghi dei Tontons Macoute, la sua polizia segreta, molti stregoni vudù. Alla sua morte, nel 1971, il potere passa al figlio, Jean Claude “Baby Doc” Duvalier, deposto nel febbraio dell’86. Negli anni seguenti si susseguono golpe, massacri, dittature. Concluse con l’intervento nordamericano del ‘94 a sostegno del presidente Jean-Bertrand Aristide, prete dei quartieri poveri. Nel febbraio del 2001, Aristide si è autoproclamato presidente, è titolare di conti per un totale di oltre 800 milioni di dollari e vanta capacità magiche. «Assicura di poter sfuggire agli attentati trasformandosi in coniglio» dice un haitiano.

In un magnifico libro dello storico Madison Smarrt Bell la rivoluzione del 1803 è definita Quando le anime si sollevano. Il fatto è che, da allora, non hanno più trovato pace.
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