Guerra senza pace

“La guerra che abbiamo conosciuto nel corso della storia, e fino a pochi anni fa, non esiste e presumibilmente non esisterà più. La guerra sarà sempre più senza quartiere e asimmetrica. Non solo: sparirà la distinzione tra pace e guerra, tra civile e militare, tra nazione e nazione, tra guerra e dopoguerra”.
“La stessa contrapposizione tra guerra e pace e le stesse nozioni di guerra in funzione della pace scompaiono infatti di fronte a una nuova situazione in cui ora e in futuro siamo e saremo tutti in uno stato permanente di guerra. Quindi guerra e pace saranno, sono, concetti ormai obsoleti”.
Sono due brani tratti da un interessante saggio di Enzo Rutigliano, docente di sociologia all’università di Trento: Guerra e Società.
Il saggio, spiega Rutigliano, vuole indagare il ruolo che le società hanno avuto nell’evoluzione delle guerre e quello che le guerre hanno avuto nello sviluppo delle società. “La sociologia della guerra, secondo la nostra ipotesi, è l’analisi e l’esposizione dei cambiamenti che avvengono nella società e dei loro riflessi nell’evoluzione della guerra (il modo di condurla, le strategie che impiega) e negli strati sociali che vi partecipano”.
Un libro del genere rientra in un nuovo filone, quello che è stato definito The Softer Side of War. Espressione che non si può tradurre come “il lato più dolce della guerra”, ma che più si richiama alla filosofia della guerra o, meglio ancora, alla guerra come cultura. Ne sono esempio e conferma altri due recenti saggi che esplorano l’influenza della cultura sulla dottrina militare: The Culture of Military Innovation di Dima Adamsky e Beer, Bacon, and Bullets di Gal Luft. Entrambi affermano che la cultura gioca un ruolo basilare nella condotta della guerra, e che politici e leader militari devono comprendere l’impatto della cultura nelle faccende militari oppure prendere atto delle spiacevoli conseguenze della loro ignoranza.
E’ un fattore ineluttabile di cui deve prendere atto anche chi la guerra la racconta. “Il futuro sarà un conflitto globale continuo e uno dei suoi strumenti privilegiati sarà, è, l’informazione. Intesa, questa, come informazione, disinformazione, controinformazione. Ma, anche, come inquinamento dei mezzi di informazione nell’ambito dell’economia e delle borse o, semplicemente, come uso dei mezzi di informazione” scrive Rutigliano.
Insomma è necessario superare ogni limite di correttezza politica e divenire embedded nel senso più profondo del termine: immergersi, inserirsi, amalgamarsi, incastrarsi nella guerra. Non solo fisicamente ma anche concettualmente. Solo in questo senso, forse, si possono risolvere i dubbi, le schizofrenie, le critiche che hanno caratterizzato il ruolo dei reporter embedded, considerati, secondo i casi o le posizioni ideologiche, rappresentanti del “War Porn”, dell’oscenità della guerra, portavoci del potere, osservatori parziali, contractors dell’informazione. Come ha scritto nel suo blog il fotografo (e amico) Andrea Pistolesi, questo induce a credere “che non ci sono dubbi sulla giustezza di un'azione o di una guerra, o meglio, nessun dubbio deve essere instillato dai media”. I dubbi, tuttavia, non possono essere creati o risolti stando da una parte o dall’altra (ammesso che “l’altra parte” consenta di seguire le loro azioni). Bensì avendo tanto coraggio, essendo tanto embedded, da analizzare la guerra come un qualsiasi fenomeno culturale, come una condizione senza tempo dell’uomo.


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