Sud-est asiatico

Monsoni, esodi, orrori e valori

In sud-est asiatico è la stagione dei monsoni, ma il flusso dei migranti che attraversano il golfo del Bengala dalle coste del Bangladesh verso la Malaysia e l’Indonesia continua.
Monsoni ed esodi si ripetono ciclicamente come fenomeni naturali. Come tali sono interconnessi e variabili. Quest’anno, il monsone di sud-ovest sembra attenuato. Quindi il numero di barconi carichi di migranti è in aumento: sono gli ultimi giorni prima che le condizioni peggiorino. Poi non sarà più possibile prendere il mare mentre il mare e le piogge allagheranno il “il paese delle maree” creando un ennesimo disastro ambientale che alimenterà il numero di coloro che cercheranno di scappare.
_83162286_10983279_709182899209579_3626175053023621803_n
La maggior parte sono Rohingya. Sono circa un milione, musulmani, stanziati nel nord del Rakhine, stato della Birmania sul golfo del Bengala. Sono gli unwanted del sud-est asiatico. Anche loro fanno parte di questo ciclo naturale in un ineluttabile destino di povertà, schiavitù, fuga, cattura, fuga.
Sul finire di questa stagione monsonica, per l’ennesima volta, si contano i morti e si raccontano gli orrori. Ma la storia, alla fine, è sempre la stessa. Leggo le cronache di oggi (come questi due articoli, da Il Foglio e da il Wall Street Journal, che presentano singolari coincidenze). Rileggo vecchi articoli, compreso un mio reportage del 2009 realizzato nei campi profughi Rohingya in Bangladesh (qui, solo in italiano). Ben poco è cambiato. In peggio: dalle fosse comuni nella foresta tra Thailandia e Birmania, alle nuove persecuzioni in Birmania.
Campo profughi Rohingya in Bangladesh
Molti hanno paragonato questa alla tragedia dei migranti in Mediterraneo. E’ l’ennesima forma di globalizzazione, secondo alcuni. In realtà è il segno di quanto il mondo sia diviso. Oltre ogni conformismo culturale e nonostante molte ambiguità, l’Occidente dimostra che i suoi “valori universali” sono ancora i più forti.
|

I teatri delle storie

«E’ vero che Thomas Merton alloggiava all’Oriental pochi giorni prima di morire?».
«Se restava qui non sarebbe morto. All’Oriental non muore nessuno».
E’ un brevissimo dialogo che, almeno per me, ha parecchi significati. Richiama a personaggi come quel monaco trappista cultore di religioni orientali o l’anziana Signora che ha trascorso tutta la vita in quel mitico hotel di Bangkok e preferisce ricordare altri incontri con scrittori e agenti segreti. Innesca una sequenza di storie perdute e ritrovate scorrendo diari di viaggio, articoli pubblicati e no, abbozzi di racconti.
Tutto questo, pensate, per parlare di un libro: “Soggiorni con Stile nel Sud Est Asiatico”.
In un primo momento, lo ammetto, m’era sembrato eccessivo. In fondo si tratta di un libro che presenta alberghi, per quanto affascinanti e “intelligenti”. D’altra parte quel libro era il frutto di parecchio lavoro e molti viaggi. Con Andrea Pistolesi, autore delle foto, avevamo pensato che valeva la pena presentarlo al meglio. Così, poco a poco, mentre cercavo un’idea per farlo, mi sono reso conto che quel libro non è semplicemente una rassegna di alberghi. E’ un concentrato di storie che in quegli alberghi si sono svolte e continuano a replicarsi con diversi personaggi.
Mi viene in mente quanto scritto da Matsuo Basho: “Decisi quindi di annotare in puro ordine sparso alcune impressioni, simili a balordaggini di un ubriaco o deliri di un addormentato, sui luoghi indimenticabili che visitavo: non datemi quindi seriamente ascolto…”.
Soggiorni

A questo punto non resta che riprodurre l’introduzione al libro.

«C’è la cultura del lusso e il lusso della cultura» disse un saggio. Che non era un eremita o un filosofo, bensì il direttore (un po’ eremita e filosofo) di un hotel alle falde dell’Himalaya (quindi non presente in questo libro). Il suo aforisma è utile a comprendere lo spirito di questo libro: “il lusso della cultura”. Gli alberghi presentati sono di lusso, a volte estremo. Dove lusso non significa solo eccellenza, esclusività, ma anche un ambiente che ci metta in condizione di apprezzare il tempo che stiamo trascorrendo, lo spazio naturale e culturale in cui ci troviamo. Sono luoghi che si caratterizzano per storia, arte, design, perché indicano una tendenza. A differenza dei “non-luoghi”, spazi privi d’identità, questi sono carichi di significato, punti cospicui del paesaggio asiatico, modelli di quello stile architettonico e di vita che sta ridefinendo l’Oriente e da qui si diffonde in Occidente. Luoghi intelligenti.

Date tali premesse, questo libro non è, né vuole essere, una guida. Tantomeno ha la presunzione della completezza (col tempo, chissà, dato che questo è un work in progress). Condizione essenziale per essere presentati, infatti, è che gli alberghi devono essere compresi, quindi visitati, vissuti. L’idea, quindi, è anch’essa di lusso, nella sua semplicità: offrire uno strumento utile ai viaggiatori sofisticati. Nell’accezione inglese del termine: colti, raffinati, per i quali l’albergo non è solo un posto dove stare (o dire d’essere stati), ma una parte del viaggio. Viaggiatori intelligenti.


“Soggiorni con Stile in Sud Est Asiatico” può essere scaricato in versione elettronica da diverse piattaforme (al costo di 4 euro circa) oppure ordinato in versione stampa (32 euro). Disponibile anche in inglese. Tutti i riferimenti qui
|

Tra Europa e Asia

Giorno dopo giorno, diviso tra Asia ed Europa per motivi che sfuggono alla mia volontà ma non alla mia scelta, annoto, scrivo, progetto. Cerco di cogliere segnali di connessione tra i due mondi non fosse altro che per dare senso al mio stare in bilico.
A volte le storie trovano una loro via, altre no. In ogni caso spesso le dimentico. E invece loro continuano a vivere, più o meno latenti nell’archivio di files. A volte riappaiono cercando altro, per serendipità.
E’ accaduto con un articolo sull’Asia-Europe Meeting, svolto a Milano l’ottobre scorso. Avevo seguito il Meeting e scritto l’articolo per dare un senso anche professionale alla permanenza italiana e perché mi sembrava interessante osservare uno spettacolo che normalmente seguo in Asia su un altro scenario. Ma poi, forse proprio perché estraniato dal mio contesto abituale, quell’articolo mi era apparso troppo astratto, un po’ oscuro.
Rileggendolo a Bangkok, però, ho scoperto che le sue ombre qui assumevano un contorno più definito. Tanto più alla luce di ciò che sta accadendo su scala globale. Uno spettacolo di luci e ombre, quindi, che voglio mettere in scena su Bassifondi.
OPENING CEREMONY
“Overshadow”, oscurare, mettere in ombra. E’ stato il mantra più ripetuto e la formula di comprensione dell’Asem. In un certo senso è sembrato di assistere a una rappresentazione di quello che in sud-est asiatico è noto come “il teatro delle ombre”, lo “Sbaek Thom” cambogiano: ogni ombra può raccontare qualsiasi storia e gli stessi marionettisti s’interrogano sul significato delle ombre che animano.
La decima edizione dell’Asem, forum biennale istituito nel 1996 per rafforzare la cooperazione e il dialogo euro-asiatico, si è svolta a Milano, l’ottobre scorso. Erano presenti Capi di Stato, ministri, funzionari di 53 paesi: 29 dell'Unione Europea più Norvegia e Svizzera, e 22 asiatici. Messi assieme, i paesi dell’Asem assommano il 62.5 per cento della popolazione mondiale, il 57 per cento del PIL e il 60 del commercio globale. “Collaborazione responsabile per una crescita e una sicurezza sostenibili”, il tema di questa “piattaforma di dialogo informale”: tanto vasto da prestarsi a ogni discussione e interpretazione su questioni economiche, politiche, culturali, climatiche, energetiche.
Tanti personaggi e dialoghi, di cui si avevano visioni fuggevoli e vaghe informazioni, hanno creato l’effetto ombra. In Cambogia, in occasione del Summit Asean 2012, a Bangkok, dove vivo, in altri meeting internazionali, ho verificato quanto sia difficile decodificare le trame del potere. Ma è stato proprio a Milano, nel mio paese d’origine, che ciò mi è apparso ancor più oscuro. Probabilmente perché qui era più complesso stabilire un confine tra Oriente e Occidente: “Qual è l’Asia? Dove finisce l’Europa? Dove si uniscono o collidono ?” non erano domande retoriche: all’Asem la Russia rientrava tra i paesi asiatici mentre il presidente della Mongolia ha definito il suo remoto paese – che nel 2016 ospiterà l’Asem - come “ponte tra Europa e Asia”.
In un certo senso è sembrata prevalere la strategia geopolitica del presidente russo Vladimir Putin: l’Eurasia. Compresa tra Europa Occidentale e Orientale (ovvero l’Asia Centrale) e limitata a est dalla Mongolia, è il teatro in cui la Russia può svolgere un ruolo proattivo nella nuova partita del Grande Gioco (a definirlo così, nel 1898, fu Lord Curzon, vicerè dell’India, riferendosi al conflitto occulto tra Gran Bretagna e Russia per il controllo dell’Asia). La Cina reagisce alle mosse russe col progetto di una Nuova Via della Seta che connetta via terra il Regno di Mezzo alla Germania attraverso Kazakhistan, Bielorussia e Polonia per poi riconnettersi alla Via della Seta Marittima via Italia o Spagna.
Come si è verificato all’Asem, tutto ciò non contribuisce ad avvicinare Europa e Asia. “Parliamo di interdipendenza globale, ed è qualcosa di reale. Tuttavia, a prescindere dalle dinamiche economiche, mentre ogni regione è intellettualmente consapevole di ciò che sta accadendo all’altro capo dell'Eurasia, ognuna vede l’altra come lontana e, infine scollegato dalle sue preoccupazioni” ha scritto George Friedman, della società di intelligence Stratfor .
Il Grande Gioco contemporaneo, quindi, andrebbe meglio denominato con la sua altra definizione: “Il Torneo delle Ombre”. All’Asem l’ombra maggiore è stata proiettata dalla crisi ucraina, che ha offuscato ogni altra questione. Vladimir Putin e il presidente ucraino Petro Poroshenko si sono incontrati per discutere una possibile soluzione. Invano. Per giustificare “Tanto rumore per nulla”, José Manuel Barroso, presidente (sino a novembre 2014) della Commissione europea, l'organo esecutivo dell'UE, ha precisato che «era giusto discutere di Ucraina qui», come se tale discussione avesse dato rilievo al meeting. La reale giustificazione è che la crisi ucraina può aumentare i rischi di volatilità dei mercati finanziari che potrebbe colpire Asia ed Europa. «La stabilità e la pace sono fondamentali per l’economia» ha dichiarato il presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy (sino a dicembre 2014).
Nel Torneo delle Ombre la scena più in luce era l’economia. A dispetto dei seguaci della Teoria del Complotto, centinaia d’imprenditori asiatici ed europei presenti all’Asia-Europe Business Forum (AEBF), manifestazione parallela all’Asem, si sono trovati concordi nella liberalizzazione delle economie. «L’Europa ha bisogno dell’Asia. Una forte economia asiatica è un motore della crescita mondiale. Allo stesso tempo l’Asia ha bisogno dell’Europa, delle sue tecnologie e dei suoi mercati» ha dichiarato Van Rompuy. «Dal punto di vista economico, l’Asia è diventata il più importante partner commerciale dell’Unione Europea, che rimane la più grande economia mondiale. La futura crescita dell’Asia, quindi, dipende dall’accesso ai mercati europei». Da parte asiatica, ha fatto notare Benjamin Philip Romualdez, presidente della Chamber of Mines delle Filippine «La nostra crescita è la vostra opportunità». In effetti, in questa seconda fase della globalizzazione (in cui sono i consumi, più che la produzione, a spostarsi verso Est), per l’Europa è decisivo riuscire a competere con successo.
In realtà, più che l’Asia in generale, l’Europa deve attrarre i China’s Superconsumers. Complice l’enorme surplus economico accumulato, le strategie della Cina cambiano: rinuncia ai profitti di breve periodo e investe enormi capitali senza badare a spese. Lo ha dimostrato l’attivismo del premier Li Keqiang all’Asem e nelle altre tappe del suo tour europeo. La Cina, infatti, sta approfittando di quella che Li definisce una “recessione economica globale” per acquisire basi d’affari nel Vecchio Continente, dove i prezzi delle aziende sono scesi e più di un governo ha chiesto aiuto a Pechino. Il premier cinese, inoltre, ha dato l’ennesima prova di “potere morbido” negli incontri col premier vietnamita Nguyen Tan Dung, ripristinando le relazioni bilaterali e rafforzando gli scambi commerciali. Offerte di collaborazione anche alla Thailandia: approfittando dello stop europeo ai negoziati commerciali in seguito al colpo di stato del maggio scorso, Li si è offerto di cooperare con la Thailandia nello sviluppo della rete stradale e delle infrastrutture.
Gli accordi bilaterali, insomma, sono stati una delle caratteristiche più evidenti dell’Asem. Il che, al tempo stesso, ne rappresenta il lato oscuro. Non tanto per la riservatezza con cui si svolgono, ma soprattutto perché mettono in ombra l’Asean. L’Associazione dei paesi del sud est asiatico, infatti, non riesce a proporsi come interlocutore unico. Nel 2009 la Commissione Europea decise di reindirizzare il proprio obiettivo dando maggiore enfasi ad accordi bilaterali coi singoli membri dell’Associazione, e all’Asem l’Unione Europea è rimasta scettica. Complice l’Aseam Business Outlook Survey 2015: ha evidenziato la diffusa preoccupazione che la tanto attesa Comunità economica dell’Asean (AEC), non sarebbe stata lanciato entro la scadenza di fine 2015. Le scadenze di troppi impegni non sono state rispettate e alcune delle iniziative più importanti non sono decollate. Secondo alcuni osservatori ciò è dovuto anche agli scarsi mezzi dell’Asean quale organismo sovranazionale. Per altri, specie tedeschi (che forse temono una replica asiatica delle distonie europee), uno dei maggiori ostacoli alla comunità economica dell’Asean è la presenza del CLMV, ossia Cambogia, Laos, Myanmar e Vietnam, paesi che hanno bisogno di più tempo per adattarsi a questa nuova dimensione economica.
In compenso, proprio l’Unione Europea ha premuto l’acceleratore sul Free Trade Agreement (FTA) tra Asean ed Eu, una mossa per contrastare altri due iperaccordi: l’americano Trans-Pacific Partnership (TPP) e il cinese Comprehensive Economic Cooperation for East Asia. Nell’Asean il maggior sostenitore del FTA con l’Europa è la Malaysia, cui spetta la presidenza dell’Asean nel 2015. «La Malaysia sosterrà il processo dell’FTA che ha subito un intoppo qualche anno fa. Speriamo in un FTA tra Asean ed Eu che rafforzi l’integrazione regionale»ha dichiarato il Primo Ministro Datuk Seri Najib Razak.
Nell’attesa che si realizzino questi macroaccordi, l’Asem ha visto stabilirsi relazioni che possono apparire marginali in uno scenario globale, ma sono fondamentali per l’integrazione regionale. Ad esempio quello tra Cambogia e Thailandia. I due premier Hun Sen e Prayut Chan-o-cha hanno avuto il loro primo incontro bilaterale dimostrando “la giusta chimica” nel far progredire una “amichevole collaborazione”. A quanto dicono fonti ben informate i due premier hanno discusso dello sviluppo di Zone Economiche Speciali (SEZ), strade, facilitazioni doganali e di frontiera. Ed era un segreto di Pulcinella la volontà comune di stabilire un’area di sviluppo comune (JDA) nel Golfo di Thailandia.
Spesso le ombre ingannano. Ciò che appare overshadowed può eclissare la minaccia del Super Chaos globale.
|

Il lato oscuro della globalizzazione

Il Triangolo d’Oro: territorio formato da una grande ansa del Mekong che segna il confine tra Laos, Birmania e Thailandia. Il papavero da oppio cresce bene nel suolo alcalino formato dalle estrusioni di questo tratto di fiume ed è ciò a giustificarne il nome.
Oggi il Triangolo d’Oro è un toponimo turistico che attrae viaggiatori in cerca di evocazioni avventurose. Un’immagine rassicurante, quasi una strategia di marketing, specie nella parte thailandese. In Laos e Birmania, però, di anno in anno aumentano gli ettari destinati alla coltivazione dell’oppio. Secondo il Southeast Asia Opium Survey realizzato dallo United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc) e presentato l’8 dicembre, sono passati dai 61.200 del 2013 a 63.800 del 2014, l’ottavo anno consecutivo d’incremento, il triplo dal 2006.
Il triangolo si è evoluto, trasformandosi in un grafo, una figura di punti interconnessi, estesa su tutta la cosiddetta “Greater Mekong Subregion”, che comprende la provincia cinese dello Yunnan, la Birmania, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam e che, a sua volta, s’incastra nel sistema del mercato globale.
Il Triangolo d’Oro importa i prodotti chimici necessari alla trasformazione dell’oppio in eroina che verrà poi esportata in Cina, in Sud-est asiatico e quindi nel resto del mondo. Un interscambio che di giorno in giorno è implementato dall’evoluzione delle infrastrutture, dalla riduzione delle barriere commerciali e dei controlli di frontiera.
Il Triangolo d’Oro simbolizza il lato oscuro della globalizzazione, come l’ha definito Giovanni Broussard, funzionario italiano del programma Unodc Borders control and transnational organized crime, un business da 90 miliardi di dollari.
L’enormità della cifra (riferita a tutto il “Transational Organized Crime”) suggella l’ultima, macroscopica connessione: quella tra il potere dei traffici e l’impotenza delle popolazioni coinvolte (specie nella coltivazione d’oppio) che non hanno alternative economiche e si trovano al centro di contese etniche o territoriali.

Southeast Asia Opium Survey 2014. Il rapporto completo
Border Control in the Greater Mekong Sub-region. Il rapporto completo
|

Storia e Fantasy

“La sapienza non è la capacità di rispondere a ogni quesito, ma è lo sforzo di affrontare un quesito fino in fondo…queste domande sono il presupposto della conoscenza sapienziale”. E’ una delle infinite citazioni che si possono ricavare dalla monumentale opera di Elemire Zolla, “Il conoscitore dei segreti”, uno dei più grandi intellettuali del Novecento.
«Come nascono le città? Perché si passa da un villaggio alla città? Questo ti fa capire i meccanismi della storia». Queste le domande che ispirano la ricerca dell’archeologa italiana Patrizia Zolese, “La signora delle città perdute”.
ladylostcity
I due personaggi appartengono a dimensioni filosofiche e spirituali lontane. Ma, come negli universi paralleli, coesistenti e connesse da passaggi nel continuum spazio-temporale. Nel loro caso quella porta si trova nell’Oriente antico.
“Il corso della storia è meno condizionato dagli eventi effettivamente accaduti che dalle rappresentazioni mentali, spesso fantasiose, costruitevi sopra” ha scritto lo storico Felipe Fernandez-Armesto, offrendo con questa citazione un altro punto di passaggio. E’ un modo per spiegare la connessione precedente. Le ricerche della Zolese, infatti, sono perfette per la costruzione di rappresentazioni mentali: templi, monumenti o intere città di civiltà scomparse non sono solo tessere di pietra nel domino della storia. Sono un paesaggio per storie anche fantasiose. E Zolla, immaginifico conoscitore di segreti, mi è sembrato un personaggio che poteva ben introdurre il senso delle ricerche della Zolese, la sua prospettiva sapienziale.
A questo punto potremmo far apparire altri personaggi e altre storie: le vicende nel mar della Cina meridionale sulle rotte degli antichi mercanti Cham, le esplorazioni nell’alta giungla della montagna sacra che domina la costa lao del Mekong, le vicende che hanno ispirato Kipling nella sua road to Mandalay. Sono tutte rappresentazioni mentali costruite sulle ricerche di Patrizia. Tutte in luoghi che, anche (per non dire soprattutto) grazie a lei (responsabile archeologico-culturale per l’Asia della Fondazione Lerici), sono divenuti patrimoni culturali dell’umanità: il sito di Vat Phu, nel sud del Laos, definito “la culla della civiltà khmer”, quello di My Son, sulla costa centrale del Vietnam, uno dei più importanti centri dell’antico regno Champa. Infine, i siti delle città dell’antico regno dei Pyu, nella regione centrale del Myanmar (paese più noto col nome di Birmania).
«Una delle più grandi civiltà del sud-est asiatico» la definisce Patrizia. «Una di quelle popolazioni che cambiano le cose». Ancora una volta la storia e le rappresentazioni che su di essa si costruiscono sembrano combaciare: nel giugno scorso, infatti, le antiche città Pyu, hanno dato al Myanmar il primo ingresso nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco.
Lo dice anche Patrizia: «Alla fine il mio lavoro sta tutto in due parole: logos e archeo». Archeo in greco significa antico. Logos vuol dire ragionamento ma anche racconto.

Sri_Ksetra__Modern_Pyay1.225x225-75


|

Un golpe postmoderno

“Come interpreti la strategia dei militari thai nei confronti dei media? Perché è così importante per loro controllare tv e giornalisti?”. Questa domanda mi è stata rivolta qualche giorno fa da una giovane giornalista di una delle più importanti reti televisive globali. Domanda stupefacente, letteralmente. Mi stupisce il candido stupore della giornalista: perché è importante controllare l’informazione in caso di colpo di stato??!!
E’ così da sempre. Senza studiare i classici (che siano Sun Tzu o Machiavelli), basterebbe sfogliare un interessante libretto di Edward N. Luttwak: Coup d'État: A Practical Handbook. E’ stato pubblicato nel 1968, in un’epoca in cui i colpi di stato erano molto più diffusi e il concetto d’informazione più approfondito. L’informazione al tempo dei social media sembra una conferma del principio d’indeterminazione. La velocità rende impossibile determinare contemporaneamente l’approfondimento.
La Thailandia del colpo di stato, Bangkok in particolare, sta diventando un laboratorio dove si verifica questo fenomeno di politica quantistica. Pochi manifestanti molto osservati da un nugolo di fotografi, operatori, reporter. La comunicazione via twitter, più che ai manifestanti serve ai giornalisti per sapere dove trovarli. Ne consegue una distorsione dell’oggetto osservato e quindi della comunicazione. Come dimostra quella stupefacente domanda: l’effetto (il controllo) occulta la causa (la presa di potere). La mancanza d’approfondimento, inoltre, giustifica un’altra distorsione della realtà: quella che si verifica utilizzando foto riprese tra il 2006 e il 2010 semplicemente perché più drammatiche o perché mostrano i carri armati in strada.
Questo è un golpe postmoderno in tutti i sensi. I pochi manifestanti che si materializzano, specie durante il week-end, in vari punti di Bangkok utilizzano modi sempre più creativi, ispirati a messaggi e forme della cultura globale, per dimostrare il proprio dissenso. Come il saluto “rivoluzionario” tratto dal film Hunger Games, la lettura in piccoli gruppi (per non infrangere la legge marziale) di 1984 di George Orwell, i “sandwiches for democracy” (“stiamo solo mangiando un sandwich” hanno detto le universitarie fermate per aver infranto la legge marziale). Senza contare che, subito dopo il golpe, uno degli emblemi dell’opposizione era Ronald McDonald, il pupazzo clown di McDonald, dato che uno di quei fast food era ritrovo dei manifestanti.
imagesP1010537
I militari, dal canto loro, hanno adottato una tecnica mista, “overt and covert”, aperta e occulta, che è la rielaborazione del concetto d’alternanza duro-morbido insito in tutta le cultura e le arti marziali asiatiche.
L’apertura, o la morbidezza, si esprime soprattutto nell’operazione “ridiamo la felicità al popolo”, lanciata sul modello dell’idea di felicità interna lorda. Quell’indicatore di benessere è stato adottato diversi anni fa nello stato himalayano del Bhutan ed è divenuto un modello d’economia politica d’ispirazione buddhista nonché un felice esempio di marketing.
Per ridare felicità al popolo la giunta thailandese ha un programma ambizioso: misure economiche (alcune già sostenute dal governo deposto) a sostegno delle classi più povere e egli agricoltori. Rilancio delle grandi opere (alta velocità, prevenzione delle inondazioni). Campagna contro la corruzione e per la trasparenza nelle rendite dei pubblici ufficiali. Miglioramento dei servizi pubblici. Promozione del turismo interno (con tour a basso costo). Inoltre ha sottilmente lanciato una campagna d’orgoglio nazionale contrapponendo i valori asiatici (quegli stessi sostenuti dalla Cina) in contrasto ai valori che gli occidentali con un po’ di arroganza culturale si ostinano a chiamare “universali”.
Considerando la vocazione thai al “sanuk”, il divertimento, la felicità è perseguita anche con concerti, spettacoli, siparietti di ragazze in mini-mimetiche, bancarelle di cibo gratis e addirittura un servizio di barbiere. Sempre in nome del divertimento e pensando anche ai turisti, il coprifuoco è stato annullato nelle destinazioni di vacanza e là dove erano previsti i “full moon party”.
dancers10373751_10204091801684382_8273557498453941388_n
Wilawan Watcharasakwet/The Wall Street Journal
In questo schema l’infelicità diventa una colpa, appare come una manifestazione antisociale, nichilista, di chi non riconosce all’esercito il merito di aver riportato l’ordine nel paese. Più che al 1984 di Orwell, bisognerebbe riferirsi a Il mondo nuovo di Huxley.
L’aspetto occulto, duro, si manifesta nella repressione di ogni dissenso, anche minimo, nelle limitazioni dei diritti e delle libertà civili, nel controllo sui media e ancor più sull’educazione. Più inquietante ancora è la capacità di convincere gli oppositori arrestati a sottoscrivere una sorta di abiura. Il che è accaduto nonostante i periodi di detenzione in molti casi siano stati molto brevi e, come hanno ammesso gli ex detenuti, più simili a “una specie di vacanza”. Forse è proprio questo il meccanismo di pressione psicologica più potente, almeno per la mente asiatica: il sottinteso. Unito alla consapevolezza che, se il confronto degenera, non c’è più alcuno spazio d’accordo.
A livello di opinione pubblica il vero flop è stato il blocco di Facebook per mezz’ora. Doveva essere un avvertimento. Ma si è ritorto contro i militari: la reazione di milioni di utenti è stata feroce. Non perché sentissero minacciata la libertà di espressione, ma perché non potevano più comunicare con gli amici, postare foto, fissare appuntamenti, organizzare incontri e condividerli.
|

Cicero pro domo mea

«Libertas, quae non in eo est ut iusto utamur domino, sed ut nullo» scrisse Marco Tullio Cicerone. “La libertà, che non consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno”. La citazione è tratta dal De re publica (II, 43). Scritto tra il 55 a.C. e il 51 a.C - ossia duemila e settanta anni fa - è un trattato di filosofia politica sul modello de La Repubblica di Platone, là dove appare un altro formidabile aforisma: «Felice la nazione i cui filosofi sono re e i cui re sono filosofi”.
101681_300
Confesso un peccato grave: avevo dimenticato Cicerone, Platone e altri giganti della mia cultura occidentale, italiana. Lo ammetto: ho ripensato a Cicerone leggendo un romanzo che lo ha per protagonista. Non un libro fenomenale, ma mi è apparso come un caso di sincronicità. Le “coincidenze significative”, come sono chiamate le manifestazioni di questo fenomeno, erano tante: nella Roma di Cicerone e nella Bangkok di oggi (dove un Cicerone non c’è e nemmeno un Cesare, ma molti Catilina) si ritrovano le discussioni sulla libertà e sulle sue limitazioni, colpi di stato, patrizi e plebei, indovini e presagi, tribuni del popolo e candidati al consolato.
Ma non sono queste le coincidenze più significative. Sulla Thailandia, alla fine, si sta già dicendo troppo o troppo poco. Quel caso di sincronicità mi ha indotto a una nuova riflessione sui diversi modi di percepire cultura, civiltà, progresso.
Quando torno in Italia, come parlando con italiani in viaggio o residenti all’estero, sento ripetere un lamento: sembra che non ci sia differenza tra Thailandia o altri paesi dell’area ed Europa o, soprattutto, Italia. Anzi, nel confronto il Belpaese esce a pezzi. Tanto più nelle proiezioni future. Dimenticando che la realtà di paesi come la Thailandia la viviamo in maniera privilegiata. Vediamo ma non osserviamo, non analizziamo. Insomma: non sappiamo. Il golpe in Thailandia, l’introduzione della sharia in Brunei, le violazioni dei diritti umani nei paesi dell’aerea ci appaiono fenomeni marginali rispetto alla crisi economica che segnerebbe il tramonto dell’Occidente. Siamo talmente focalizzati su noi stessi da scordarci di che cosa facciamo parte, del nostro sistema sociale, dei nostri valori.
Ci scordiamo Cicerone. Della nostra cultura, della nostra realtà. O peggio, non conosciamo la prima e non riusciamo ad apprezzare la seconda. In questo, sì, siamo globalizzati in un mondo di realtà virtuale dove l’informazione è autoreferenziale, dove la connessione crea incomunicabilità.
E’ una riflessione che vale anche al contrario, per gli altri. Gli asiatici, infatti, specie in Thailandia, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che i loro paesi non sono pronti per la democrazia, che per loro non si possono ancora applicare i valori dell’occidente. Al tempo stesso, però, contestano quegli stessi valori in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe proprio dal mantenere immutati i propri valori.
Invece è proprio nei beni definiti “immateriali” - quali la governance, l’innovazione, the rule of law, il welfare, la cultura della libertà di pensiero - che l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.
Come Cicerone.
|

L'essenza del dramma

«Il conflitto è l’essenza del dramma» dice Ekachai Uekrongtham, scrittore e regista thailandese. Ekachai ha ideato e dirige uno spettacolo in scena in questi giorni a Bangkok. S’intitola Muay Thai Live ed è una sequenza di scene, che narrano la storia della Muay Thai, l’arte marziale thai. E’ uno spettacolo in cui la violenza della Muay Thai si trasforma nelle acrobazie di affascinanti quadri animati, perde brutalità nei giochi di luci e suoni. Quello spettacolo è un po’ la metafora di ciò che sta accadendo in Thailandia. Del resto, come dice Ekachai: «la Muay Thai è un po’ l’essenza della thailandesità».
Violenza e brutalità esplodono a tratti nelle strade. Ma nella maggior parte dei casi si trasformano nello spettacolo delle manifestazioni. Il dramma, inteso come rappresentazione, assume tutte le sue forme canoniche: commedia, farsa, tragedia. E l’essenza del dramma, che sia teatrale o reale, resta il conflitto. Così come l’origine del conflitto è la volontà di controllo. Un termine che in Thailandia si sente ripetere sempre più spesso. Anch’esso è uno dei codici di una cultura basata sul rapporto “pee-nong” (superiore-inferiore), che a sua volta deriva dell’interazione tra il Dharma, l’ordine etico e sociale, e il kharma l’azione che determina il destino individuale. Ormai, però, il controllo sembra sfuggire alle regole codificate e gli attori sulla scena cercano di crearne uno nuovo o ripristinare l’antico. E così, mentre Muay Thai Live sta per terminare le repliche, l’altro spettacolo sembra destinato ad andare avanti ancora per molto.



Per gli ultimi articoli sulla crisi thailandese clicca qui e qui. E anche qui.
|

Occupy Bangkok

Mi chiedo quale dea, ninfa o donna mortale rappresentino le statue di marmo a seno nudo che affiancano la scala all’entrata laterale della Thaikufah, il palazzo del governo di Bangkok. E’ un edificio costruito agli inizi del secolo scorso da due architetti italiani. Sul prato antistante la facciata in stile gotico veneziano c’è una folla festante.
Seduto su un seggiolino di plastica blu sotto quelle statue, accanto a un soldato con un garofano bianco nella cintura, penso quanto sia assurdo soffermarsi sui dettagli architettonici in un momento del genere. Tanto quanto lo è tutta questa storia.
P1110923
«Oggi tutti sono felici» dice un uomo che si qualifica come ufficiale della polizia di Bangkok. Osserva la scena con un sorriso che sembra più ironico che felice.
Pochi minuti prima sono stati rimossi i blocchi di cemento che circondavano il palazzo del governo e il quartier generale della polizia. Un fiume di manifestanti scorre tra due ali di poliziotti. Tutti sorridono, si fanno il segno del wai, giungendo le mani sul viso, fotografano e si fotografano con i telefonini.
«E domani?»
«Domani…“mai pen rai”» risponde con lo stesso sorriso, che accentua il senso di quell’espressione, “mai pen rai”, tra l’ottimista, il fatalista e il rassegnato, che significa non preoccuparti, non pensarci.
«Che cosa spero? La pace» dice un giovane ufficiale della polizia di Bangkok
«Non sarà facile»
«Appunto: è una speranza».

***

Solo la sera prima c’era poco da sperare. Una donna indica il cielo di Bangkok e dice che la salvezza può giungere solo da là. Il giovane che traduce i discorsi di quella signora, dice che non c’è da farci caso. «Dobbiamo fare qualcosa noi per creare un nuovo paese. Questo può essere un modo pericoloso, ma non c’è alternativa». Denuncia corruzione, inefficienze. «La mia è una famiglia povera. Sono riuscito a studiare, a trovare un lavoro. Ma non riesco a vedere oltre» dice in un perfetto inglese.
La signora che attende la soluzione dal cielo – e va precisato che il Cielo in Thailandia molto spesso è un’espressione usata per indicare il palazzo reale – e il ragazzo che lavora come programmatore in una società di software sono due volti della protesta iniziata a fine novembre e che ai primi di dicembre si è infiammata in un’escalation sempre più violenta e pericolosa.
Mentre la signora e il giovane cercano di dimostrare in modi diversi che la democrazia è un’opinione, il cielo di Bangkok è solcato dai lacrimogeni e dai proiettili di gomma sparati dalla polizia e dai sanpietrini, le biglie d’acciaio e le molotov dei dimostranti che si fronteggiano sulle due rive di un khlong, un canale, che delimita il palazzo del governo.
Mentre gli scontri continuano cerco un po’ di tranquillità all’interno di un monastero, il Wat Somanas Rajavaravihara. Mentre scrivo sotto un albero bodhi sento colpi che non suonano come quelli dei lacrimogeni.

***

Sono arrivato al palazzo del governo in compagnia di un gentile signore che afferma di essere un docente universitario di scienze politiche. Gli chiedo di spiegarmi quali possono essere gli sviluppi di questa crisi. Dice che possiamo chiacchierare mentre passeggiamo nell’area che è stata appena “liberata”. Ma prima vuole fermarsi di fronte alla statua di Rama V, il re venerato dai thailandesi per il ruolo che ebbe nel mantenere l'indipendenza del paese nel periodo in cui tutti gli altri stati asiatici divennero colonie delle potenze europee e per il contributo che diede alla modernizzazione del Siam. S’inginocchia e prega per qualche istante. «Lui ci proteggerà. Proteggerà anche te» mi dice poi. Secondo il professore siamo a una svolta. Se il primo ministro se ne va, un gruppo di saggi chiederà al re (Rama IX, Bhumipol Adulyadej) di indicare una personalità al di sopra delle parti per formare un nuovo governo. Che rimarrà in carica per qualche anno. Poi, quando il paese sarà pronto, verranno indette altre elezioni. Quando ci salutiamo il professore mi invita a passare a trovarlo. Nel suo negozio di oggetti tradizionali d’arredamento.

***

Il giorno della speranza, in realtà, per alcuni è semplicemente una buona mossa tattica del governo. Per tutti, segna solo una tregua alla vigilia del compleanno del re, il 5 dicembre. L’origine della rivolta è stata la proposta del governo di un’amnistia per tutti quelli coinvolti nelle rivolte che si sono susseguite dal 2006. Amnistia che avrebbe cancellato anche le condanne (dopo un processo estremamente politicizzato) per corruzione, abuso di potere e lesa maestà dell’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di stato nel 2006 e rifugiato all’estero. Da allora, la Thailandia si è letteralmente divisa in due: i sostenitori di Thaksin, le cosiddette magliette rosse, i phrai, il popolo, le classi più povere, e i suoi oppositori, i gialli (dal colore della casa reale), rappresentanti dell’ammart, l’elite. Nel 2010 i rossi hanno occupato il centro di Bangkok innescando una rivolta che si è conclusa con 90 morti e un migliaio di feriti. Nelle elezioni del 2011 il partito dei rossi ha vinto le elezioni ed è stata eletta primo ministro la sorella dell’ex premier, Yingluck Shinawatra. Sembrò allora che, pur con molti vizi di forma, la Thailandia si fosse avviata alla normalizzazione. Era un’altra speranza.

***

«Kanom, kanom» grida una signora in mezzo alla strada, invitando i manifestanti a servirsi dei “dolcetti” che sono lo snack preferito dei thai. La signora distribuisce anche bottiglie d’acqua e piccoli asciugamani – di quelli normalmente usati per rinfrescarsi, inumiditi e profumati – per pulirsi gli occhi irritati dai lacrimogeni. Le scene che si sono susseguite nei giorni delle manifestazioni ricordano quelle del 2010, durante la rivolta dei rossi. Ci sono i venditori ambulanti di magliette, trombette, fischietti, i carretti di cibo, le postazioni per i massaggi, i volontari di pronto soccorso. Anche la colonna sonora è uguale: un misto di discorsi propagandistici sottolineati da boati di folla e intercalati a musica popolare thai. Il tutto a volume altissimo (tanto che, questa volta, c’è stato chi ha provveduto a distribuire tappi per le orecchie). E ci sono le surreali differenze tra una parte e l’altra della città. Appena fuori la zona degli scontri la vita procede normalmente. Una sera, tornando a casa, sento improvvisamente dei colpi violenti. Penso siano passati ad armi più pesanti. Poi alzo gli occhi al cielo e vedo i fuochi d’artificio.

***

Ma le differenze ci sono. Negli slogan, nei volti sulle magliette o nelle caricature. E’ cambiato solo il demone di turno, che nel 2010 era il primo ministro conservatore Abhisit Vejjajiva e oggi è Thaksin, in tutte le sue incarnazioni. E’ cambiato anche il giudizio su Berlusconi, che, dopo i calciatori è l’italiano più noto in Italia. Nel 2010 i rossi mi dicevano con orgoglio che Thaksin era come Berlusconi, ricco, amato e spiritoso. I manifestanti di oggi mi dicono che vogliono cacciare la sorella di Thaksin come noi abbiamo cacciato Berlusconi. «La Thailandia potrebbe essere un paese ricco e felice, se abbandonasse questa pulsione a una politica autodistruttiva» mi dice un amico thai. «Come italiano dovresti capirlo bene».
La differenza più profonda, tuttavia, riguarda proprio la speranza. Nel 2010 si sperava nelle elezioni. Oggi in qualcosa d’indeterminato. Suthep Thaugsuban, ex vice primo ministro nel governo Abhisit e leader del movimento d’opposizione vuole lo scioglimento del parlamento e la formazione di un consiglio di saggi per formare un “parlamento del popolo”. «Non riesco a capire che cosa voglia dire» ha dichiarato il politologo Pavin Chachavalpongpun. Probabilmente non lo capiscono bene anche i militari, che non sembrano disposti a un colpo di stato (dal 1932 ce ne sono già stati 18). Almeno non a sostegno del progetto di Suthep. Se interverranno, lo faranno quando potranno apparire come i salvatori del Regno anziché golpisti.

***

«Vedi gialli qua attorno?» mi chiede un manifestante. In effetti le magliette gialle sono poche. Quasi tutti, come il mio interlocutore, ne indossano una nera. Ufficialmente in segno di lutto per la recente scomparsa del supremo patriarca buddhista. Probabilmente anche per segnare un distacco dai “gialli” in quanto rappresentanti di un’aristocrazia partecipe di un sistema che si vuole abbattere. Il nero, però, non si richiama al colore dell’estrema destra occidentale. Appare più intonato a quello del movimento di protesta internazionale Occupy, tanto che su molte magliette è raffigurata la maschera di Guy Fawkes, l’eroe di V per Vendetta (accanto al volto di Suthep). I gialli ci sono, indubbiamente, ma ormai rappresentano solo una delle anime del movimento d’opposizione. La maggior parte sono studenti, giovani che hanno twittato ogni istante delle manifestazioni, che vogliono cancellare un sistema corrotto e inefficiente (anche in questo caso si possono trovare molte analogie con l’Italia). Sostenitori di un’ideologia anticapitalista e non-consumista, di quell’economia sostenibile predicata da Sua Maestà Rama IX. Sulla loro linea i nascenti gruppi della cosiddetta “società civile”. Ci sono poi i supporter del Partito Democratico (analogo a quello italiano solo per la sua incapacità di vincere le elezioni), rappresentante della borghesia thai. Tutti disposti a barattare la democrazia con un regime di uomini onesti. E ancora: gli ultraconservatori realisti e gruppi d’integralisti buddhisti che invocano una purezza nazionalreligiosa che si contrappone alle contaminazioni animiste dei contadini dell’Isan, la regione più povera della Thailandia, spesso d’origine lao o cambogiana.
In un modo o nell’altro la Thailandia, che è stato il primo paese asiatico a sperimentare la modernizzazione (proprio durante il regno di Rama V), sembra divenuto punto di scontro tra i cosiddetti valori universali elaborati dalla filosofia politica occidentale e i valori asiatici teorizzati da Lee Kuan Yew, il demiurgo della città-stato di Singapore. Un conflitto che potrebbe facilmente contagiare i paesi vicini come il Myanmar, la Cambogia, il Laos, dissuadendoli dal procedere sulla via delle riforme politiche.
«Molti sono feccia» aggiunge un espatriato riferendosi ai manifestanti d’ogni colore che con le loro proteste danneggiano gli affari.

***

«Temo che questa situazione possa far scivolare la Thailandia verso una guerra civile a bassa intensità» ha dichiarato Paul Chambers, ricercatore capo dell’Istituto di Studi sul sud-est asiatico dell’università di Chiang Mai. Il pericolo è reale proprio perché la divisione thailandese diviene sempre più profonda in termini culturali e sociali. C’è chi l’ha definita un “conflitto filosofico”. Intanto i rossi, che in questi giorni hanno un tenuto un profilo basso, sono pronti alla mobilitazione, chiamando a raccolta tutte le nuove leve formate nelle scuole di partito aperte in molti dei villaggi del nord e del nord-est.
Benedict Anderson, un esperto di sud-est asiatico alla Cornell University, ha citato Antonio Gramsci: “Quando il vecchio rifiuta di morire e il nuovo combatte per nascere appaiono i mostri”.

***

Ho passato il tempo riordinando idee e appunti sotto il palazzo del governo. Molti manifestanti cominciano ad andar via. Mi avvio anch’io. Una ragazza raccoglie le bottiglie di plastica disseminate sulla strada che ieri sera era un campo di battaglia. Se ne sono consumate migliaia per bere e per pulirsi gli occhi dai lacrimogeni. Lei le venderà per qualche centesimo al chilo.

P1110594P1110601P1110617P1110638
P1110549P1110615

P1110641P1110649P1110651P1110669

P1110676P1110681
P1110692P1110693P1110696P1110699P1110701P1110706
P1110716P1110791P1110799P1110801P1110828P1110898P1110904
P1110918P1110862

|

Se una notte d'inverno un viaggiatore...

...“Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto…”. Così inizia il primo degli incipit dei racconti che compongono il romanzo di Italo Calvino. Un libro sui casi, le coincidenze, le connessioni mentali…
Ne parlo a Singapore con Yeng Pway Ngon, scrittore, poeta, pittore, libraio, intellettuale, libero pensatore dalla vita difficile. In Italia è appena uscito il suo ultimo libro, L’Atelier.
l-atelier

Un romanzo di storie incrociate, “sull’amore, sull’arte. La vita” dice Yeng. Non ricorda Calvino, ma, come lui, anche Yeng sembra voler risalire il corso del tempo per cancellare le conseguenze di certi avvenimenti e restaurare una condizione iniziale.
E così la storia raccontata e la vita stessa di Yeng divengono metafore di Singapore, su quel filo di rasoio che separa l’Utopia dalla Distopia. Un tema che è stato al centro del recente Writers Festival.
«Il sistema si è stabilizzato» dice Yeng. Il che significa che il controllo può essere allentato, anche culturalmente. Il problema, secondo questo autore che si definisce “esistenzialista” è che se ciò accade è perché il sistema ha ormai raggiunto il suo scopo: l’assimilazione mentale a un modello di pensiero prestabilito. I singaporean, ormai, sono definitivamente “kiasu”: “temono la perdita”. E non è la libertà in gioco. «Una volta i libri di Mao erano proibiti. Adesso si possono vendere, ma nessuno li compera» dice.
Mentre parliamo s’infervora, passa da un inglese stentato al cantonese (subito tradotto dalla sempre sorridente Goh Beng Choo, sua moglie da 36 anni). Quello che lo irrita è il conformismo culturale determinato dalla perdita di cultura. A cominciare proprio dalla lingua. Il cinese, il suo cinese (scrive in mandarino intercalato a vari dialetti) è ormai una lingua “economica”. Si parla ma non si sa scrivere, non si conoscono i caratteri. Conveniamo che l’analfabetismo di ritorno è un problema globale. Anzi è la vera conseguenza di una globalizzazione di valori e idee. Stiamo diventando tutti un po’ kiasu.
«Ci vuole coraggio. Coraggio morale» dice Yeng.
P1110412

Se una notte d’inverno – e, ricordiamolo, per Singapore adesso è inverno – il mondo è cambiato, appaiono altre visioni che sembrano contraddire la denuncia di Yeng. Sono quelle di “If The World Changed” tema-titolo della Biennale d’Arte. Nei musei, nelle università nelle gallerie della città-stato sono allestite mostre collettive e personali di autori del sud-est asiatico. L’idea è di definire la regione come un corridoio fluido d’idee. Personalmente è l’occasione di scoprire anche alcuni Maestri che non conoscevo, come Wu Guanzhong, uno dei più grandi pittori cinesi contemporanei, o Hong Zhu An.
Unknown

201303191058551088744400.png
Il confronto con alcuni giovani sperimentatori è impietoso. Come sempre, in occasioni del genere, sembra materializzarsi la caverna di Platone in cui molti non riescono a distinguere le ombre dalla realtà, l’opinione autoindotta dalla conoscenza. Ma proprio quest’idea della Caverna, di una conoscenza fluida e sfumata ha generato alcune delle opere-installazioni più interessanti. Come l’installazione digitale interattiva del teamLab giapponese o le immagini digitali del vietnamita Nguyen Trinh Thi, che presenta scene “viventi” di donne e uomini di Hanoi.







Se una notte d’inverno - ed è inverno anche in Thailandia - osservi Bangkok, “il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio”. Perché il viaggiatore è passato dalla utopia-distropia di Singapore, al caos di una metropoli che proprio in questo ha il suo fascino.
Come nel libro di Calvino le storie s’intersecano. Quello che sta accadendo a Bangkok, le ennesime manifestazioni antigovernative - anche se adesso è al governo il partito di chi manifestava e manifesta chi era al governo – che potrebbero portare all’ennesimo colpo di stato, è qualcosa che riconduce al dialogo con Yeng Pway Ngon su controllo e democrazia. Solo che qui il sistema non si è stabilizzato, è divenuto disfunzionale: un controllo senza democrazia o una democrazia incontrollabile.
In quest’intreccio di paradossi e ossimori, l’opposizione, che condanna la “tirannia della maggioranza” e sottintende una filosofia politica di democrazia limitata o illuminata (un po’ quella materializzata a Singapore) e sembra auspicare un colpo di stato militare, ha preso come simbolo, uno dei tanti nella kermesse delle manifestazioni thai, la maschera di V per Vendetta, l’eroe che si oppone a una società totalitaria e militarizzata.

P1110542

Sono tentato di farla mia, quella maschera. V per Viaggiatore.
P1110307

|

La corsa della Storia e della Pace

Venerdì 12 ottobre alle 11 ora dell’Europa Centrale, 16.30 ora birmana, sarà annunciato il vincitore del Nobel per la pace.
Tra i candidati compare anche Thein Sein, presidente della Repubblica dell’Unione del Myanmar (nome ufficiale della Birmania): per Kristian Berg Harpviken, direttore del Peace Research Institute of Oslo (Prio), un centro di studi indipendente, Thein Sein è uno dei cinque favoriti tra le 231 nomination valide prese in esame dal Norvegian Nobel Committee.
Nelle parole del fondatore del premio, Alfred Nobel, quello per la pace deve essere assegnato a chi “abbia fatto il massimo o il meglio per la fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per l’organizzazione e la promozione di accordi di pace”.
In questo senso, per Harpviken, Thein Sein è papabile: perché “sta dirigendo un processo di pace che sta gradualmente evolvendo nel paese. La costruzione delle pace è al centro del mandato del Nobel, e molti premi sono stati assegnati sia ai mediatori sia ai rappresentanti principali delle parti in conflitto”.
Il premio a Thein Sein può essere oggetto di controversie. Il presidente birmano, infatti, ha fatto parte di quella stessa giunta militare che per molti anni ha dominato la Birmania in una delle più brutali dittature della storia contemporanea.
Tuttavia, come dice Harpviken, il Comitato del Nobel ha spesso sottolineato che “il premio non è solo per i santi” e, negli ultimi anni, “sempre più ha dimostrato di voler influire sugli eventi in corso, anche se ciò può comportare gravi rischi”.
Da quando è stato eletto presidente, nel febbraio 2011, non c’è dubbio che gli “eventi in corso” in Birmania abbiano subito una straordinatria accelerazione: dalle elezioni suppletive in cui Aung San Suu Kyi (vincitrice del Nobel per la pace nel 1991 proprio per la sua opposizione al regime) è stata eletta in parlamento, alle recenti dichiarazioni di Thein Sein, secondo cui non si opporrebbe alla presidenza della Signora, se vincesse le elezioni del 2015. Tanto che la stessa San Suu Kyi ha ammesso: “Il Parlamento è più democratico di quanto mi aspettassi”.
Per alcuni il comportamento di Thein Sein nasce dalla sua profonda volontà di guadagnare meriti a riscatto di un karma macchiato dalle colpe precedenti. Per la maggioranza, è un calcolo strategico. Il “compromesso storico” birmano, infatti, è l’unica possibilità per il paese di giocare su più tavoli. Lo chiarisce un articolo di un funzionario birmano approvato “dalle più alte autorità”: “Non vogliamo che la nostra nazione divenga un satellite cinese”. La strada per la democrazia, in questo caso, è lastricata dalla fine dell’embargo e miliardi in aiuti economici, ed ha come meta finale la metamorfosi della Birmania nell’ennesima Tigre Asiatica.
L’ostacolo maggiore è rappresentato dai conflitti con le diverse etnie che compongono il paese e in cui l’esercito è stato accusato, e si è macchiato, di ogni genere di violazione dei diritti umani. Il governo di Thein Sein ha stabilito accordi di cessate il fuoco con 10 degli undici gruppi armati etnici, ma la tregua rimane fragile e continuano i combattimenti nello stato dei Kachin, dove la guerra ha già provocato migliaia di morti e decine di migliaia di trasferimenti forzati della popolazione. Secondo i rappresentati dei gruppi etnici, quindi, l’accelerazione degli eventi in corso è sin troppo rapida e rischia di sacrificare sull’altare dell’economia i diritti dei popoli in uno sviluppo segnato da ancor più profonde disuguaglianze e da una gestione del territorio senza scrupoli. Per qualcuno la stessa Aung San Suu Kyi è divenuta complice di Thein Sein per non aver denunciato gli attacchi governativi ai Kachin, “Non voglio buttare benzina sul fuoco” ha risposto la Signora, che quindi è stata accusata di aver tradito i suoi ideali umanitari.
In questa prospettiva il Nobel per la pace a Thein Sein si può davvero rivelare una scommessa molto azzardata: può legittimare definitivamente il suo governo e giustificare in nome di un bene superiore nuove repressioni etniche e un incontrollato sviluppo a spese degli ennesimi dannati della terra. Ma può anche rivelarsi un passaggio decisivo verso la democrazia, pur con tutti i suoi limiti, e portare a quella conferenza di riconciliazione civile che segnerebbe la pax birmana dopo quasi oltre sessant’anni di guerra civile.
Quando, ad aprile ho scritto: “non ci sarebbe da stupirsi - forse è auspicabile - se il presidente Thein Sein fosse premiato con il Nobel per la Pace”, paragonandolo a Frederik Willem de Klerk, ultimo presidente del Sudafrica dell'apartheid (e quindi paragonando Aung San Suu Kyi a Nelson Mandela), molti hanno giudicato quella frase una provocazione, un’eccentricità, un’ipotesi fantapolitica.
Invece, comunque vada a finire questa storia, è chiaro che la Storia sta subendo un’accelerazione.
Disse Sant’Agostino: “Solvitur ambulando”.

La conferenza di Thein Sein alla Asia Society di New York il 27 settembre scorso (con traduzione). Sotto: il video completo (sempre della Asia Society) della visita di Aung San Suu Kyi a Washington D.C.

|

Isterie

La vittoria di Yingluck Shinawatra alle elezioni thailandesi ha suscitato anche le reazioni delle femministe locali. Al contrario di molte donne thai, sono riluttanti a considerarla un successo sulla via dell’uguaglianza.
"Come possiamo essere orgogliose? Tutti sanno che è merito di Thaksin” ha dichiarato all’agenzia AFP Sutada Mekrungruengkul, direttrice del Gender and Development Research Institute of Thailand.
In effetti, il successo di Yingluck è in gran parte dovuto al fatto di essere la sorella minore di Thaksin Shinawatra, l’ex premier deposto da un colpo di stato nel 2006, adorato dalla popolazione più povera tanto quanto odiato dall’elite.
Il successo di Yingluck, tuttavia, ha superato ogni aspettativa, segno che è riuscita a convincere non solo i seguaci del fratello ma anche molti incerti. Senza contare che, se ha vinto in quanto sorella di Thaksin, per lo stesso motivo poteva anche perdere. Da sorellina, Yingluck potrebbe divenire la Grande Sorella.
Ma la dichiarazione della signora Sutada non si limita a quella constatazione, condivisa da tutti gli avversari politici del Pheu Thai, il partito di Thaksin.
Cade nel ridicolo con un confronto: con «Aung San Suu Ky, che ha combattuto per vent’anni e non è ancora primo ministro del Myanmar». Il che non è certo colpa di Yingluck. Dimostra che, nonostante parecchi limiti, in Thailandia vige la democrazia, al contrario di quanto accade in Birmania. Il paragone, poi, non tiene conto del fatto che la stessa Aung San Suu Kyi è riuscita ad affermarsi come la leader dell’opposizione in quanto figlia del generale Aung San, artefice della Birmania indipendente. Anche un’altra grande donna della politica asiatica, Indira Gandhi, deve l’avvio della sua carriera alla famiglia. Non quella di Gandhi (si chiamava così suo marito, ma senza alcuna parentela con il Mahatma Gandhi), bensì di Nehru, suo padre, Primo Ministro Indiano dal 1947 al 1964.
Più che un problema di genere è un problema di dinastie. Che in Asia spesso si trasmettono in linea femminile.
Utilizzare Yingluck per un'ennesima polemica femminista potrebbe anche essere definito un sintomo d'isteria. Non perché l’isteria sia stata considerata una malattia appartenente all'universo femminile (il termine deriva dal greco hystera, utero). Ma perché, come sostengono molti psicologi, è la manifestazione di una crisi che la persona esprime in una rappresentazione codificata che conosce.
P1020985La vittoria di Yingluck si poteva positivamente interpretare come il riconoscimento di qualità femminili: la moderazione, la capacità di conciliazione. Fattori su cui lei ha impostato la sua campagna elettorale.
Ma negli schemi, nelle rappresentazioni codificate del femminismo estremo, ciò non poteva accadere. Quindi il motivo dev’essere un altro.
C’è da chiedersi : sarebbe stata altrettanto contestata dalle femministe se fosse stata brutta? Ma anche, per onestà maschile: in quel caso avrebbe vinto?
Per la Thailandia, in questo momento, l’importante è che Yingluck riesca davvero ad accordare tutte le fazioni sotto lo stesso cielo.

|

Il patto col diavolo

«In quale fottuto paese sarei potuto diventare editore con un investimento minimo? Certo: il governo mi ha sostenuto. Ho detto: ehi, la vostra immagine internazionale non è tanto bella. Forse posso aiutarvi». Così mi disse Ross Dunkley, australiano, direttore ed editore di The Myanmar Times, unico giornale birmano rivolto al mondo esterno.
Il 10 febbraio Ross è stato arrestato a Rangoon con l’accusa di aver violato le leggi sull’immigrazione. Si dice anche sia stato imputato di rapporti con prostitute e possesso di marijuana. Ross è stato trasferito nella prigione di Insein, luogo di detenzione e tortura degli oppositori politici. L’udienza a suo carico si svolgerà il 24 febbraio. Se ritenuto colpevole rischia sino a cinque anni.
Sino a giovedì scorso questo grosso australiano dalla testa rasata poteva davvero definirsi un uomo fortunato. Era sempre riuscito a cavarsela in un paese dove i peggiori incubi possono materializzarsi in un risveglio improvviso.
In realtà Ross aveva fatto un patto col diavolo. Il suo Mefistofele si chiamava Khyn Nyunt. Nel 2000, quando Ross aveva lanciato il Myanmar Times, l’operazione era stata benedetta da lui, allora primo segretario della giunta militare nonché comandante dell’intelligence Militare. Ecco perché, quando avevo chiesto a Ross come se la cavasse con la censura (domanda di un’ingenuità che ancora mi sbalordisce), lui aveva risposto: «Ho detto: posso esservi più utile se il giornale non è sottoposto alla censura standard, è più appropriato il controllo dell’MI, l’intelligence Militare».
Al tempo del nostro incontro il generale Nyunt era addirittura primo ministro e Ross godeva di una protezione assoluta: era l’uomo che presentava all’occidente il volto umano della giunta. Pochi mesi dopo, però, il generale fu destituito “per ragioni di salute”, quindi arrestato per corruzione e condannato a 44 anni di carcere da scontare nella prigione di Insein. Alcuni dicono che in seguito gli siano stati concessi gli arresti domiciliari, ma nessuno sa bene dove sia finito.
Qualche anno dopo ho incontrato ancora Ross. Sempre in perfetta forma e più indaffarato. Nel frattempo aveva fatto altri patti con altri diavoli. il primo con “Sonny” Myant Swe, figlio del generale Thein Swe, che nel 2005 era a capo del dipartimento delle relazioni internazionali del Servizio Segreto Militare. Poi anche la famiglia Swe era caduta in disgrazia e finita in carcere. Ross, allora, aveva concluso un accordo con il dottor Tin Tun Oo, tycon locale legato alla giunta.
Il problema è che il Dr. Oo non è caduto in disgrazia. Anzi, è divenuto membro dello Union Solidarity and Development Party, il partito costituito come espressione “democratica” della giunta. Così, quando le discussioni circa l’assetto della società editrice del Myanmar Times (che nel frattempo ha avviato altre pubblicazioni in sud-est asiatico) si è spinta troppo oltre, per Ross è giunto il momento di scontare il suo patto. Questa l’interpretazione di molti osservatori locali e del suo socio e connazionale David Armstrong.
Forse Ross è finito in prigione perché pensava che i tempi fossero davvero cambiati e che in Birmania ci fosse spazio per la discussione (il che è un’offesa alla sua intelligenza). Più probabilmente i suoi mefistofelici padrini hanno pensato di non aver più bisogno di lui, del suo aiuto per migliorare l’immagine del paese. Ormai sembrano convinti di aver accreditato l’idea di un paese in cammino verso una nuova era, un nuovo sistema e una nuova piattaforma politica che conduca alla democrazia. Seppur “fiorente nella disciplina”, secondo il detto del generale Than Shwe, vero Lucifero della Birmania, ma democrazia.
A leggere alcuni giornali occidentali c’è da credere che i birmani e Than Shwe abbiano raggiunto il loro scopo. Il che mette a rischio molte persone, private di un forte appoggio esterno. Non è il caso di Ross. Lui, com’è probabile e come spero, se la caverà. Ma degli oltre 2000 prigionieri politici detenuti nel carcere di Insein e negli altri penitenziari che costellano il Myanmar. Ci sono da anni e sono destinati a restarci. Dimenticati.
Il patto col diavolo, ancora una volta, lo sta facendo il mondo. Come condannare Ross? Per carità, però, non trasformiamolo in un martire.


|

Il rischio dell'Icona

imagesLa Signora Aung San Suu Kyi è finalmente libera. Il difficile viene adesso. Tutti gli scenari sono possibili. Potrebbe essere che la giunta militare abbia davvero imboccato la road map per la democrazia. E’ un dubbio da porsi, per correttezza etica ancor prima che d’analisi politica. Ma è un dubbio che si scioglie molto presto. Basta leggere la lucida, sintetica analisi di Bertil Lintner, uno dei più acuti osservatori degli affari birmani, pubblicata sul New York Times.
Per il momento il governo birmano sembra aver raggiunto un obiettivo importante sulla via della legittimazione. Altro traguardo importante è quello di poter giocare su tavoli diversi. Non solo con Cina, Russia, l’India e Asean. Ma pure con Stati Uniti e Unione Europea. Ottimo risultato anche per le multinazionali che fanno affari con i militari birmani. Adesso sembrano un po’ meno sporchi.
Molto dipende dalla Signora. Deve provare le sue capacità politiche e diplomatiche. C’è già chi comincia a metterle in dubbio. Come se, il coraggio, la dignità, la fermezza morale dimostrati negli ultimi vent’anni a questo punto non fossero più sufficienti. Il simbolo è tale solo se agli arresti.
Diamole il tempo necessario. Ammesso che i generali glielo concedano. E può ottenerlo solo con una politica internazionale seriamente impegnata in questo teatro, che la riconosca come interlocutrice a tutti gli effetti.
Sono analisi che devono essere compiute. Freddamente. Altrimenti l’opportunità può trasformarsi in un limite. Il rischio è quello di una “tibetizzazione” della Birmania. O meglio, della sua opposizione. Che potrebbe essere l’obiettivo voluto dai generali. “Non stiamo parlando di una semplice dittatura militare” ha
scritto Lintner. “Questa è una dittatura che è divenuta esperta nel mantenimento del potere”.
Il rischio è che Aung San Suu Kyi divenga l’ennesima “icona” da t-shirt, canzoni rock, oggetto di marketing.
Un Che Guevara femminile, pacifico e con un fiore tra i capelli. Una sorta di santa laica paragonata a Mandela, Gandhi, il Dalai Lama, senza alcuna analisi delle differenze di contesto, storia, strategia, geopolitica.
Il rischio è che della Birmania ci si ricordi solo in occasione di qualche manifestazione della pace, di un megaconcerto.

|

La vera storia del Sergente Eroina

Era conosciuto come il Sergente Smack. Smack nello slang americano anni ’60 indicava l’eroina (forse perché il significato letterale è “aroma, sapore”?). Il suo vero nome è Leslie “Ike” Atkinson. Durante la guerra in Vietnam, tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, fu al tempo stesso la mente e il braccio che organizzarono il traffico della più pura eroina prodotta nel Triangolo d’Oro, là dove il Mekong forma un’ansa che si incunea in Thailandia, segnando a est il confine con il Laos e a ovest con la Birmania. Il papavero da oppio cresce bene nel suolo alcalino di quel tratto di fiume ed è questo fiore all’origine dell’intrico di storie che l’avevano trasformato in uno dei cuori di tenebra del sud-est asiatico.
Muovendosi tra quello scenario e la Bangkok dei bar dove i militari americani trascorrevano i loro periodi di R&R, Rest and Recreation, il sergente Smack diffuse l’eroina che si propagò come un’epidemia tra gli stessi soldati e negli Stati Uniti. Seondo la Drug Enforcenent Agency (DEA), l’agenzia statunitense per la lotta alla droga, in poco tempo il suo giro d’affari raggiunse la cifra di 400 milioni di dollari. Per contrastare la sua attività fu addirittura creata una speciale unità della DEA: la Centac 9, che condusse tre anni d’indagini in tre continenti.
Smack Fu arrestato nel 1975 nella sua casa di Goldsboro, in North Carolina, quindi condannato a 31 anni di prigione e rilasciato nel 2007. Dicono che non abbia mai portato un’arma con sé e gli agenti che lo hanno incastrato lo definiscono “un gentleman”.

ike

La sua storia è raccontata nel saggio-reportage Sergeant Smack: The Legendary Lives and Times of Ike Atkinson, Kingpin, and His Band of Brothers. L’autore è Ron Chepesiuk, che ha analizzato e descritto attori, comprimari e scene del crimine con precisione da giornalista investigativo e stile da sceneggiatore cinematografico.
Ha svelato gli intrighi e i retroscena delle gang afroamericane che operavano tra Stati uniti e Sud Est Asiatico come pesci nell’acqua torbida delle relazioni tra America e Thailandia. Di un business che coinvolgeva ambasciate straniere a Bangkok, alti ufficiali, polizia, uomini di governo e alcune delle “più rispettate famiglie thai”.
Tra tanti misteri Chepesiuk fa luce anche su uno dei più inquietanti, macabra leggenda della guerra in Vietnam: la cosiddetta “Cadaver Connection”. Quella secondo cui l’eroina sarebbe stata contrabbandata negli USA all’interno delle bare dei militari uccisi in Vietnam. Una leggenda, secondo Chepesiuk, alimentata da uno degli uomini che lavoravano per il Sergente Smack: Frank Lucas, che ha sempre vantato la “Cadaver Connection” come una sua idea.
«Quando Lucas morirà il suo epitaffio dovrebbe essere questo: “ha preso in giro il mondo facendo credere alla cadaver connection» ha detto Smack. C’è riuscito talmente bene che la leggenda è divenuta fiction nel film American Gangster interpretato da Denzel Washington nella parte di Lucas.


Il trailer di American Ganster

Per leggere un estratto dal libro nella sezione Storie clicca qui
|

Pirati della strada

Ennesimo incidente stradale che si trasforma in tragedia. Dopo lo scontro si è accesa una violenta discussione tra i due ragazzi e i due uomini che viaggiavano sui mezzi coinvolti. Più tardi, quando i ragazzi pensavano che la questione fosse risolta ed erano tranquilli al bar, sono stati freddati dagli altri due e da un gruppo di loro amici. Sembra un episodio di cronaca abbastanza comune.
Il fatto è che è accaduto a Pegu, una città 50 chilometri a nord di Rangoon, in Birmania. Secondo i media controllati dalla giunta militare l’episodio è stato provocato da una bravata di due giovani ubriachi.
Secondo quanto riferisce Burma Partnership, organizzazione degli oppositori birmani in esilio, i due ragazzi, Aung Thu Hein, 22 anni, e Soe Paing Zaw, 18, viaggiavano su un trisciò (una bicicletta risciò) che si è scontrata con una moto dove viaggiavano due ufficiali dell’esercito. Dopo la discussione i due militari e altri loro camerati si sono messi in caccia. Finché hanno ritrovato i ragazzi e li hanno uccisi.
Per minimizzare le conseguenze dell’esecuzione e placare il risentimento degli amici delle vittime, le autorità locali hanno offerto alle famiglie un milione di kyat (poco meno di 800 euro). In cambio avrebbero dovuto tacere. Forse perché non hanno accettato e si sono permesse di protestare, i corpi dei due ragazzi sono sati immediatamente cremati senza permettere a genitori e parenti di dar loro un ultimo saluto.
In realtà questo è un episodio di cronaca abbastanza comune. Per la Birmania.
funeral-youths-pegu
Il manifesto funebre di Aung Thu Thein. L’unico diritto concesso ai genitori. Foto: Mizzima
|

Scusa Thailandia

La censura thailandese ha proibito la diffusione di un video dal titolo “Scusa Thailandia”. Secondo la commissione, il video, che presenta scene della rivolta del maggio scorso, potrebbe innescare nuovi disordini e scontri tra le fazioni.
Il primo ministro thai Abhisit Vejjajiva, invece, ha chiesto di revocare il bando, giudicando il video per quello che appare: una dichiarazione di corresponsabilità da parte di tutti, la rappresentazione di vizi nazionali.
Il suo è un segnale forte, che sembra dimostrare la volontà nel procedere nel progetto di riconciliazione nazionale, e soprattutto, di un cambiamento profondo nella cultura e nella società.
Purtroppo è ancor più forte il segnale della censura, che sembra ispirato a una superiore volontà di far apparire il paese come un irreale “Regno del Sorriso”.
Se prevarrà questa linea, forse bisognerà chiedere scusa alla Thailandia altre volte ancora.

Il video censurato

|

Il Grande Elefante Bianco

Il quotidiano birmano filogovernativo “New Light of Myanmar” ha annunciato che un raro esemplare di elefante bianco, una femmina di 38 anni, alta oltre due metri, è stato catturato a Maungtaw, nello stato di Rakhine. Alcuni analisti hanno sottolineato il fatto che per i birmani l’elefante bianco rappresenta un simbolo di cambiamento politico, collegandolo alle prossime elezioni, annunciate per ottobre.
Per altri, più addentro gli esoterismi della giunta birmana, la notizia assume un significato più inquietante.
Secondo un rapporto di Democratic Voice of Burma, infatti, il governo birmano starebbe sviluppando un programma segreto per realizzare armi nucleari e missili balistici: un “Grande Elefante Bianco”, simbolo magico di potere e di potenza. C’è da sperare che il progetto resti un simbolo. Ma potrebbe materializzarsi come uno dei peggiori mostri che popolano l’immaginario asiatico grazie alla collaborazione della Corea del Nord.
Il vero mistero di questa ennesima follia della giunta birmana non è nella possibilità che realizzi armi di distruzione di massa, bensì nel motivo. Per un dissidente esule a Bangkok è la prova che i generali sono un gruppo di psicopatici che vivono nell’incubo di un’invasione. Per altri è una manovra pilotata dai coreani. Secondo altri ancora fa parte di una strategia molto più complessa per ottenere un predominio nell’area. Intanto i nuovo aerei riservati ai leader massimi della giunta sono anch’essi stati battezzati “Elefante Bianco”.



Per vedere il documentario completo della DVB clicca
qui.

|

Il primo sangue

Una donna in lacrime chiede di accompagnarla a casa: abita all’altro lato della piazza del Democracy Monument di Bangkok. E’ terrorizzata. E’ cambogiana. Rivive qui le scene di vent’anni fa, quando è fuggita dal suo paese. Nella notte di sabato 10 aprile, a Bangkok, si sono svolte le prove generali di una guerra civile. Una guerra civile, non un golpe.

P1080206

P1080171

P1080213

P1080265

P1080281

P1080320

P1080311

P1080325

Per leggere la cronaca di quel Sabato Nero clicca qui

Mezz’ora più tardi, quando gli scontri erano terminati, quella donna non era più dove l’avevamo lasciata, al sicuro. Certamente è tornata a casa, forse pensa di tornare in Cambogia, al sicuro.
|

The Joker

Una fila di persone, uomini, donne, alcune con un bambino in braccio, si allunga al centro di una strada di Jakarta. Alzano la mano per chiedere un passaggio. Si fermano parecchie auto. Molte BMW, Mercedes, Lexus. In qualche caso fanno accomodare il passeggero nel sedile davanti, accanto all’autista. Che sia una dimostrazione di solidarietà, espressione della cultura democratica, moderna che sta nascendo in Indonesia? In realtà quelle persone non chiedono un passaggio. Si offrono come passeggeri. Sono The Joker, il jolly, per attraversare alcune zone dove, nelle ore di punta, ogni auto deve avere almeno tre persone a bordo. Un servizio che costa circa diecimila rupie (circa un dollaro). Non poco in un paese dove il salario medio è di circa 100 dollari il mese.
Forse anche the joker contribuisce alla crescita economica dell’Indonesia, che, secondo il fondo d’investimenti Templeton, potrebbe entrare a far parte del cosiddetto Bric, il gruppo di nazioni (Brasile, Russia, India e Cina) che compongono l’emergente potere globale.
Forse, invece, gli analisti finanziari dovrebbero scendere più spesso per strada, lasciando per un attimo gli uffici condizionati nei grattacieli del business district. Asiatici. Solo così i loro rapporti risulterebbero davvero corretti.
Gli stessi analisti dovrebbero andare più spesso anche a messa. Si accorgerebbero di quello che può essere il vero Joker del paese con la maggior popolazione islamica del pianeta: il cinese cristiano. E’ l’esemplare di una specie in espansione che potrebbe rivelarsi risolutiva nella definizione dei prossimi equilibri planetari.
|

E' tempo di cambiare

BANGKOK. Embedded tra le camicie rosse che da domenica occupano quartieri di Bangkok chiedendo lo scioglimento del parlamento thai e nuove elezioni. Il mezzo di trasporto, in uno dei chilometrici cortei, è un veicolo armato di lanciarazzi. Alla maniera thai: una vecchia moto dipinta di rosso con agganciato un carretto. A bordo una go-go girl tatuata che si affretta a fornire il suo cellulare e due signore che offrono banane e riso. Il lanciarazzi è un tubo di metallo. Tirando un cordino il pilota ne fa uscire un fallo di legno dalla punta rossa. Ogni lancio è accompagnato da inequivocabili inviti rivolti al premier Abhisit Vejjajiva.
P1060263

P1060185
Scene del genere si ripetono a migliaia. Ma oltre il folclore, il colore locale diventa sempre più rosso. Alcuni leader dell’UDD, lo United Front for Democracy against Dictatorship, maggiore movimento d’opposizione, sono ex quadri del CPT, Communist Party of Thailand, attivo negli anni ’70. Alcuni, come il dottor Weng Tojirakarn o Jaran Ditthapichai, organizzatore di scuole di formazione politica, vantano lunghe permanenze nella giungla. «Siamo qui per dichiarare una guerra di classe» ha gridato alla folla radunata sotto il sole torrido Nattawut Saikua, carismatico leader della protesta.
Tra quella folla di cento o duecentomila persone, secondo le fonti, non si vedono ritratti del re, che forse per questa parte del popolo comincia a essere un po’ meno venerato. Sean Boonpracong, portavoce dell’UDD, ripete come un mantra il primo principio del movimento, “il re è il capo dello stato”, ma su Facebook invita a non fare commenti sulla monarchia. Poche anche le bandiere thai, simbolo di una Khwampenthai, “thailandesità”, che questa gente sente dominata dal sistema dall’ammat, l’élite. Molti i ritratti dell’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di stato nel 2006, condannato a due anni di carcere per conflitto d’interessi e da allora in “esilio volontario”. Molte anche le effigi di Phraya Taksin, il generale che si fece re nel 1769, appoggiato dalle masse popolari, cui diede l’idea di essere cittadini e non soggetti (salvo poi dichiararsi Sotapanna, semidio). Più o meno lo stesso percorso compiuto da Thaksin. «Thaksin aveva tendenze autoritarie, ma il suo crimine è stato voler scardinare il vecchio sintema delle istituzioni non elette, dell’esercito, dei karachakan, i funzionari pubblici. È il primo leader che abbia fatto sentire il popolo partecipe della vita politica» dice Federico Ferrara, professore di Scienze Politiche alla National University of Singapore e autore del saggio-reportage Thailand Unhinged, “Thailandia scardinata”.
Thaksin resta un simbolo per il pu-noi, il “popolo minore”, le masse più povere. Ma sta diventando un compagno di strada sempre meno gradito ai leader dell’opposizione. «Non sto lottando per Thaksin, sto lottando affinché il mio paese divenga una vera democrazia» precisa il dottor Weng. Non a caso le manifestazioni sono iniziate due settimane dopo il cosiddetto “giorno del giudizio”, il 26 febbraio, quando la corte suprema ha confiscato più della metà del patrimonio (2,3 miliardi di dollari) dell’ex premier, con la motivazione di averla accumulata abusando del suo potere. Non a caso uno degli interventi più apprezzati dall’opposizione è stato quello di Giles Ji Ungpakorn, socialista thai in esilio in Inghilterra: “Molti spiegano questa lotta come una disputa tra Thaksin e i conservatori, tra il vecchio ordine feudale e il moderno sistema capitalistico. Ma in quest’analisi manca l’elemento fondamentale: la nuova volontà del popolo”.
In questo scenario il premier Abhisit, considerato un privilegiato che è riuscito a evitare il servizio militare, non ha potuto che dichiarare impraticabili le proposte dell’opposizione. Ma il rischio è che proprio Abhisit, ex professore di economia formato a Oxford, e non sempre d’accordo col generale Anupong Paochinda, capo di stato maggiore, venga sostituito da un vero e proprio “uomo forte”.
Quella che si è instaurata in Thailandia dopo il golpe del 2006 e il “ribaltone” con cui ha preso il potere l’attuale governo nel 2008, infatti, non è una dittatura. E’ una “Thai Style Democracy”, in cui potere e dovere di governare competono a coloro che detengono il baramee, l’ideale di giustizia, non a chi compra voti o promette favori. “La democrazia è solo il formalismo delle elezioni o richiede sostanza per essere reale?” chiede retoricamente Stephen B. Young, direttore della Caux Round Table, network di uomini d’affari che sostengono un approccio etico al capitalismo, molto vicino alla nobiltà thai.
Ciò che è messo in discussione in Thailandia va ben oltre la politica locale. E’ il concetto di democrazia. Tanto che la nazione diviene paradigma della “morte della democrazia” descritta da Joshua Kurlantzick, esperto di politica del sud-est asiatico, su Newsweek del 22 marzo. In Asia, infatti, sono sempre più numerosi i sostenitori di un “dispotismo illuminato”. Ma qui e ora il concetto non si richiama a ideali illuministici. Assume il significato buddhista d’illuminazione, culmine di una Via che può compiersi nel corso d’innumerevoli reincarnazioni, seguendo gli obblighi del Dharma, la “legge”. Un modo per mantenere lo statu quo e definire la politica nell’ambito di un sistema gerarchico.
Intanto i rossi continuano le manifestazioni, mix tra la festa dell’Unità, il rave party e le feste che si celebrano in sud-est asiatico per l’inaugurazione di un tempio. E di giorno in giorno il loro colore diventa sempre meno pittoresco e più inquietante. Come quello dei mille litri di sangue che stanno raccolti a 10 cc per manifestante per versarli di fronte a parlamento e alla sede del partito di governo.
«Basta che i rossi non divengano come i khmer rossi» dice un’elegante signora del locale “jet-set dal sangue blu”. In realtà non sono “l’orda” descritta dai giornali filogovernativi ma potrebbero diventare altro. Magari in mano a boss locali con la vocazione del “Signore della Guerra”. Possibilità non così remota osservando il compiacimento con cui esponenti dell’opposizione si circondano di bodyguard in nero.
«Ci siamo così abituati a essere il paese del sorriso, del “mai pen rai”, non preoccuparti, che non abbiamo fatto i conti con le ombre che si annidano dietro questa immagine» dice lo scrittore e mistico buddhista Tew Bunnag. «E’ tempo di cambiare. E il mutamento, come sappiamo, è spesso doloroso».

Articolo del 16 marzo 2010.
|

Combattimenti

Uomini, donne, bambini, galli, cobra. Nell’Isaan, il nord-est della Thailandia, la regione più povera, tutti combattono. La lotta è un modo di vivere. È una rappresentazione, spesso all’interno dei monasteri. Si assiste a scene che possono apparire ridicole, sgradevoli, immorali. Chi volesse ergersi a giudice dovrebbe vedere anche quelle mistiche.
Come il padre e il suo bambino di sette anni, inginocchiati l’uno di fronte all’altro, le mani giunte nel gesto del wai, segno di rispetto e benedizione, poco prima che il bambino salisse sul ring per un combattimento di Muay Thai. E il padre iniziasse a scommettere.
DSCN5078
|

Confucius

In tutta l’Asia orientale è in programmazione il film Confucius, kolossal sulla vita del grande pensatore e politico divenuto l’icona della nuova Cina. Quarant’anni fa, durante la Rivoluzione culturale, la sua tomba fu profanata “per attestarne la morte certa”: un lasso di tempo che Confucio avrebbe ritenuto poco significativo.
L’uscita del film ha suscitato polemiche e infiniti commenti per la coincidenza con l’esclusione delle sale di Avatar. Un’interpretazione diffusa è che il film di Cameron fosse una parabola in difesa dei diritti umani e delle minoranze etniche. Confucius, invece, rappresenta in forma spettacolare l’aspetto più nobile della Cina, quello della “benevolenza”, della “società armoniosa”.
Difficile riconoscere una contraddizione apparente nella morale implicita dei due film. È questo che dovrebbe davvero indurre a una riflessione. Continuiamo a valutare concetti di etica e giustizia secondo i codici della nostra cultura, cristiana o socratica che sia. Il confucianesimo fa parte di un’altra logica, che i suoi nuovi discepoli applicano in modo totale. È seguendo questa stessa logica, del resto, che anche molti buddhisti arrivano a teorizzare una “dittatura illuminata”.
«In questa parte di mondo siamo lontani dall’idea di Do, ma è fortissima l’idea della morale» commenta un missionario cattolico.
«In tempo di guerra ci vogliono i generali. In tempi di disordini ci vogliono i pensatori» dice nel film il duca Ding, sovrano di Lu, per richiamare Confucio.
I cinesi lo hanno capito.

I trailer di Confucius





|

Buddha salvi il Re

La notte del cinque dicembre il cielo di Bangkok si è acceso dei rossi e dei gialli dei fuochi d’artificio che chiudevano le manifestazioni per l’ottantaduesimo compleanno di Sua Maestà Bhumibol Adulyadej, nono monarca della dinastia Chakri di Thailandia, il sovrano più a lungo regnante del pianeta.
P1040187
Durante tutta la giornata la città è fiorita del rosa di magliette, camicie, e anche di hijab, i veli delle donne di fede islamica: secondo gli astrologi reali il rosa è di buon auspicio per il re.
P1040135
Nei quartieri storici di Bangkok decine di migliaia di persone si sono radunate per celebrare ill Kwam Suk Kong Khon Thai Tai Saeng Phra Baramee, la “Felicità sotto la Benevolenza di Sua Maestà il Re”.
E ancora una volta da parte di molti osservatori stranieri (e qualcuno thai) è stata sottolineata “l’anomalia” della monarchia Thailandese in cui la figura costituzionale si fonde con quella del Dhammaraja, un re che amministra ciò che è proprietà del dio. Il giornalista Thanong Khanthong ha scritto che Sua Maestà “conduce il suo popolo sulla via di Suvarnabhumi, la Terra d’Oro che accoglierà il Buddha futuro”. Una sacralità di ruolo che giustifica una legge di “lesa Maestà” tra le più severe al mondo, sia per le pene, sia per l’ampiezza della sua possibile interpretazione e applicazione.
Secondo la filosofia occidentale tutto ciò è una violazione del concetto stesso di libertà. Secondo la prospettiva di molti thai, è una dimostrazione di libertà. Libertà di avere un monarca che è parte essenziale della loro cultura, che con tutti i suoi rituali rappresenta la loro Sovranità. Insomma: la libertà di crederci. Quello che si può dire è che i thai, a differenza di altri, non cercano di esportare alcun modello, né si permettono di giudicare gli altri.
|

The Next Kong

La prossima Hong Kong, quella dei tempi d’oro, zona franca per ogni traffico, dovrebbe rivivere a Koh Kong, in Cambogia, un villaggio sul golfo del Siam, poco oltre il confine thai. E’ una promessa dell’ex premier thailandese Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di stato nel 2006, condannato per corruzione, fuggitivo tra Dubai, Nicaragua, Sud Africa e Cambogia. Dove è stato nominato consigliere economico dal suo “eterno e fraterno amico” Hun Sen, ex khmer rosso, da oltre vent’anni primo ministro cambogiano. Thaksin, dicono, frequentava Koh Kong quando era ancora in gloria e aveva intrecciato rapporti d’affari con il boss locale Ly Yongphat, senatore dal partito al governo in Cambogia, nonché sospettato di essere uno degli Asian Godfathers che occultamente controllano l’Oriente. Per ora l’unico indizio di quelle connessioni e del futuro di Koh Kong è il resort-casinò stile sino-impero-tropicale costruito da Ly Yongphat cento metri prima del confine con la Thailandia.
P1030779
L’ingresso del Koh Kong Resort & Casino, dominato
dalla statua del generale Kuan, dio cinese della guerra e degli affari.


Ma oltre quella specie di castello coronato da decine di statue di divinità greche si apre il nulla. La promessa zona economica speciale di Koh Kong è una landa deserta circondata da un muro già in rovina. Il villaggio di Koh Kong, sulla riva del fiume Kaoh Pao (sovrastato da un chilometrico ponte finanziato dall’onnipresente Ly), è poco più di un agglomerato di baracche sull’acqua – queste sì, versione in scala ridotta della Hong Kong anni ’50. Per ora Koh Kong serve soprattutto a costruire la futura Singapore, con la terra estratta dal fondo del suo fiume che decine di chiatte continuano a trasportare nella città-stato e i cui marinai sono i migliori clienti delle prostitute locali.
Koh Kong diventa così una metafora di quella Next Asia descritta da Stephen Roach, economista e presidente della Morgan Stanley Asia: la promessa, o la minaccia, del Secolo Asiatico che potrebbe essere ancora lontana dall’avverarsi. La Next Asia, infatti, è qualcosa che molti analisti sembrano dare per scontato osservando solo le mille luci di Shanghai, Hong Kong, Kuala Lumpur o Singapore. Senza vedere ciò che c’è oltre, le zone oscure che coprono il continente a macchia di leopardo.
|

Roulette Cambogiana

«Vai in Cambogia?». Per il funzionario del ministero degli Esteri Thailandese è scontato che in questo momento la meta di un giornalista residente a Bangkok sia la Cambogia. Il che non rassicura circa l’evolversi dell’ennesima crisi tra i due paesi.
E’ iniziata a fine ottobre, durante il Summit dell’
Asean, l’organizzazione dei paesi del sud-est asiatico, quando il primo ministro cambogiano Hun Sen disse che aveva intenzione di dare asilo all’ex premier thailandese Thaksin Shinawatra e nominarlo suo consigliere economico.
Thaksin, deposto da un colpo di stato nel 2006, da allora vive in esilio spostandosi tra Sud America, Dubai, Sud Africa (dove sembra si dedichi al commercio dei diamanti) e Cambogia. Nel frattempo un tribunale thai lo ha condannato a due anni per abuso di potere e corruzione. Secondo il suo “fraterno amico” Hun Sen, è vittima di una persecuzione paragonabile a quella subita dalla leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi, che ha trascorso gli ultimi vent’anni agli arresti.
Nonostante le proteste del governo thai, che ha giudicato la dichiarazione di Hun Sen come un’interferenza nei suoi affari interni, il premier cambogiano ha mantenuto il suo impegno e la settimana scorsa, con decreto firmato dal re di Cambogia Norodom Sihamoni, ha nominato Thaksin consigliere economico. Pochi giorni dopo il “fuggitivo”, come lo definiscono in Thailandia, è arrivato a Phnom Penh accolto con tutti gli onori. «Può aiutare la Cambogia a diventare ricca come la Thailandia» ha dichiarato Hun Sen. Speranza che Thaksin ha cominciato ad alimentare lo scorso anno, quando ha presentato un piano per trasformare in una “seconda Hong Kong” la provincia marittima cambogiana di Koh Kong.
Puramente formale, quindi, l’immediata richiesta di arresti ed estradizione di Thaksin rivolta al governo cambogiano da parte del procuratore generale thailandese.
Nel frattempo i due paesi hanno richiamato i rispettivi ambasciatori e la Thailandia ha cancellato il memorandum d’intesa con la Cambogia circa le zone di “sovrapposizione” ai loro confini. Come se tutto ciò non bastasse Thaksin ha rilasciato un’
intervista al Times in cui, sia pure in modo vago, sembra auspicare una riforma della monarchia thai, istituzione considerata sacra, tanto più in un momento estremamente delicato per le condizioni di salute del venerato monarca, Bhumibol Adulyadej.
Insomma, nonostante le sue dichiarazioni, secondo cui non avrebbe mai agito contro gli interessi, del suo paese, Thaksin si è trasformato nel detonatore di una crisi che potrebbe sfociare anche in un conflitto. In cui la Thailandia ha tutto da perdere.
Secondo alcuni osservatori, qualora la crisi dovesse peggiorare, un piccolo, povero paese come la Cambogia, che tutti ancora ricordano per gli orrori subiti durante il periodo dei kmer rossi (di cui Hun Sen fu tra i primi protagonisti), susciterebbe molta più simpatia della Thailandia. Senza contare che Thaksin potrebbe davvero apparire come un perseguitato.
Hun Sen, invece, non ha nulla da perdere. Anzi, la crisi sta già canalizzando il nazionalismo khmer nella direzione che vuole lui: contro i thailandesi. In questo modo riesce a distrarlo dalla crescente insofferenza verso vietnamiti, che hanno invaso il paese nel 1979, hanno prescelto Hun Sen come primo ministro nel 1985 e in modo più o meno occulto continuano a controllare il governo.
In questa prospettiva, c’è da chiedersi se gli Stati Uniti sosterranno la causa cambogiana in appoggio i vietnamiti (che si stanno dimostrando i migliori alleati nell’area) sacrificando il loro stoico alleato thai, mentre i cinesi si schiereranno con i thai in funzione antivietnamita e antiamericana sacrificando Thaksin che era consideravano un partner affidabile, sangue del loro sangue. E’ l’ennesima mano di un gioco cominciato trent’anni fa. A carte rimescolate.

Articolo pubblicato su
Il Foglio Online del 12 novembre

|

Il Nome di Dio

In un racconto di fantascienza di Artur C. Clarke, i Nomi di Dio sono nove miliardi. E quando saranno stati tutti scritti (con parole di non più di nove lettere), l’umanità avrà esaurito il suo compito e ci sarà la fine del mondo. Possiamo stare tranquilli: tra quei nove miliardi di nomi ce n’è uno che non potrebbe essere scritto per definire Dio, a meno che non lo facesse un musulmano: Allah. Tra fantascienza e fantareligione è quanto sostiene il governo Malaysiano che ha vietato la distribuzione di diecimila Bibbie in cui il nome di Allah era usato per indicare il Dio cristiano. Il governo, espressione della maggioranza malay-musulmana che controlla il paese, ha affermato che la parola Allah è islamica e il suo uso nella Bibbia potrebbe offendere i musulmani. La Christian Federation of Malaysia, invece, sostiene che le popolazioni di lingua araba hanno usato quel Nome per riferirsi a Dio prima della fondazione dell’Islam.
"A Dio appartengono i nomi più belli: invocatelo con quelli" è scritto nel Corano (VII, 180). sarebbe davvero bello se a tutti fosse concesso di usare il nome per loro più bello. Anche a rischio della fine del mondo.
|

Bad Boys

Sono tutti cattivi: ex tagliatori di teste o ex guerriglieri comunisti, signori della guerra e dell’oppio, trafficanti di eroina e metanfetamine, criminali delle Triadi cinesi e generali birmani. Sono i protagonisti della storia che si sta svolgendo nel settore birmano del Triangolo d’Oro e negli Stati Shan, al confine con la Cina. Una storia appena iniziata e che potrebbe trasformarsi nel detonatore di una crisi in tutta l’area.
Negli ultimi mesi il governo etnocratico birmano sta cercando di consolidare il proprio potere attaccando le minoranze più organizzate. E’ toccato prima ai Karen (perenni vittime sacrificali) e poi ai Kokang, di etnia cinese. I prossimi dovrebbero essere gli ex tagliatori di teste Wa, che controllano il traffico di metanfetamine in sud-est asiatico. E allora, come ha detto un osservatore locale, “si rischierebbe di aprire il vaso di Pandora”. Perché i Wa dispongono di un esercito di 25.000 uomini molto ben armati. Secondo la Jane’s Intelligence Review, la United Wa State Army (UWSA) ha acquistato un completo arsenale di ultima generazione prodotto in Cina. Ciò significha che il governo di Pechino non gradisce troppo un rafforzamento del regime birmano ai suoi confini. Senza contare che sino agli anni Ottanta sono stati i cinesi a sostenere e armare molti eserciti “etnici” sotto l’ombrello del partito comunista birmano. Una volta esaurita la spinta ideologica si sono convertiti al traffico di droga.

15456-8_apr_4HL
Una parata dell’UWSA

I generali della giunta birmana, dal canto loro, sanno perfettamente che l’unico modo per mantenere il potere a lungo termine è di eliminare ogni spinta centrifuga e forse contano sul fatto che i cinesi siano disposti a sacrificare qualche decina di migliaia di “indigeni” pur di tenersi aperta la via per l’Oceano Indiano. Lo dimostra la tiepida reazione all’attacco contro i Kokang. Altra variabile di questo scenario è rappresentata dagli stessi Wa, che potrebbero cedere il controllo sul territorio pur di mantenere quello sul traffico di droga, i cui proventi sono investiti anche in Birmania (comprese molte strutture turistiche). Oppure potrebbero rinsaldare la fresca alleanza con gli Shan, loro storici nemici per il controllo dell’oppio.
Secondo alcuni osservatori, infine, i generali birmani vogliono affermare la loro “indipendenza” dalla Cina. Lo proverebbe il fatto che il Myanmar Times, settimanale che è la voce in lingua inglese del governo, abbia dato notizia della visita del Dalai Lama a Taiwan. In questa prospettiva i militari sarebbero in cerca di nuovi alleati. C’è chi fa il nome di Mahinda Rajapaksa, presidente dello Sri Lanka: il suo primo viaggio all’estero dopo la sconfitta delle Tigri Tamil è stata in Birmania e sembra che il generale Than Shwe, numero uno della giunta, abbia trovato illuminanti le sue idee circa la lotta alle minoranze.
Altri fanno notare l’entusiastica accoglienza che la giunta ha riservato al senatore americano Jim Webb, cui sembra rispondere una certa disponibilità dell’amministrazione Obama. Ma una ripresa delle relazioni con gli USA potrebbe avvenire solo nel caso la giunta proseguisse nella sua road map verso la democrazia (per quanto controllata). E questa può realizzarsi col pieno controllo del territorio.
Per i cattivi l’unica regola è che non ci sono regole.
|

Un monaco pericoloso

«Se cediamo alla rabbia l’energia negativa continuerà a espandersi. E allora non ci saranno più nemici, solo vittime». E’ un insegnamento di Thich Nhat Hanh, monaco e poeta vietnamita, esule da oltre quarant’anni.
Ancora una volta le vittime sono stati i discepoli di Thây, Maestro, come lo chiamano. Il monastero di Bat Nha, nel Vietnam centrale, dove vivono i monaci e le monache che s’ispirano al suo insegnamento, è stato devastato. Secondo le autorità locali si è trattato di “un affare interno tra sette buddhiste”. Per molti, invece, l’irruzione era pilotata dall’alto.
Thich Nhat Hanh, uno dei maggiori esponenti della tradizione Zen contemporanea, nato in Vietnam nel 1926, a sedici anni diviene monaco buddhista, ma ben presto si allontana dalla pratica tradizionale per seguire quella del “Buddhismo impegnato”. Inizia una lotta personale alla povertà, all’analfabetismo, alle ingiustizie sociali. Con l’escalation del conflitto diviene uno dei più importanti attivisti per la pace: nel 1964 crea la “Scuola della gioventù per i servizi sociali” e lavora nei villaggi della DMZ, la zona smilitarizzata tra Vietnam del Nord e del Sud che, nonostante il nome, fu teatro di numerose e violente battaglie. Intanto continua a spostarsi tra Stati Uniti, Francia e Singapore, rispettivamente per sostenere i movimenti pacifisti, come capo della delegazione buddhista ai colloqui di Parigi, per implorare Lee Kuan Yew, il signore della città stato, di dare asilo ai profughi. Nel 1966, dopo un’ennesima missione, gli è negato l’ingresso in patria e a nulla vale la candidatura al premio Nobel per la pace sostenuta da Martin Luther King nel 1967. Da allora vagabonda esule, finché, nel 1982, fonda un monastero buddhista in Francia. Nel 2005 il governo vietnamita lo invita a tornare per una serie di conferenze. «A quel tempo il governo voleva dimostrare la sua apertura alla libertà di culto. Era in gioco l’ammissione al WTO (l’organizzazione mondiale per il commercio) » spiega Giang Nguyen, capo della stazione vietnamita della BBC.
Ormai lo scopo è raggiunto, quindi sono riprese le critiche verso Thich Nhat Hanh e i suoi monaci, accusati di “approccio scorretto nei confronti della politica dello stato vietnamita”
L’approccio scorretto si basa sulla “presenza mentale”. «E’ la piena consapevolezza di sé, di ogni respiro, di ogni movimento, di ogni pensiero e sensazione, di tutto quanto ci riguarda» spiega Thây. «Dovete essere del tutto presenti per ottenere una diversa percezione della vita. Dovete essere come giardinieri che coltivano il giardino di casa: coltivare le emozioni, abbracciare le emozioni. Riprendere contatto anche con la vostra paura e la vostra rabbia, se volete superarle». E’ vero: è una pratica pericolosa.

Qualche minuto di presenza mentale

|

Nidi di rondine

Ci sono isole remote, sparse nel Golfo di Thailandia e nel Mar delle Andamane, dove governano bande armate e dove la successione al potere avviene per eliminazione. Non sono pirati, né trafficanti di droga. Sono coloro che controllano lo sfruttamento di ciò che è definito “oro bianco” o “caviale dell’Est”: i nidi di rondine.
birdsnest1
Prodotti dalla saliva di una specie di rondine del Sud-est asiatico, sono considerati una panacea per tutti i mali, un elisir di lunga vita e, soprattutto, un potente afrodisiaco. Il che li rende ricercatissimi: sul mercato di Bangkok sono venduti a circa 1500 euro il chilo, ma già sulla piazza di Hong Kong il prezzo sale a 4500. Negli ultimi anni, però, il traffico dei nidi di rondine ha messo a rischio la sopravvivenza di quella specie animale, nonché degli uomini che vi sono coinvolti. Per far fronte alla sempre maggior richiesta cinese, quindi, si sono iniziati ad attrezzare veri e propri “condomini per rondini” dove possano nidificare. Senza contare che questo nuovo business si è rivelato un modo eccellente per riciclare denaro sporco.
Scrive David Le Breton: “Più che un cibo noi consumiamo i valori che gli vengono associati”.

Nidi di rondine, afrodisiaci e altri strani cibi nei libri di Jerry Hopkins.

|

The Magical Mystery Tour

«Naypyidaw è stata progettata come quartier generale. Poi hanno cominciato a pensare che era un posto perfetto per tutti loro. Volevano sentirsi al sicuro, anche da eventuali epidemie» dice un attivista birmano a Bangkok.
Naypyidaw è la nuova capitale della Birmania. Loro, gli artefici di questa città fantasma, sono i generali della giunta militare. L’uomo che me ne parla la conosce bene: ci ha lavorato due anni. «Per resistere a qualunque attacco hanno scavato le montagne. Gli ingegneri erano nordcoreani».
DSCN9226
La pagoda di Naypyidaw, tempio del lavoro forzato.
Le connessioni tra Birmania e Corea del Nord, accomunate da regimi che materializzano tutti gli incubi del totalitarismo, sono ben note da anni. Ma fingiamo di accorgercene ora. Per quello che è stato definito “The Magical Mystery Tour” di una nave nordcoreana, la Kang Nam I. Nei giorni scorsi questo decrepito cargo si è trasformato in una metafora dei misteri e delle trame che s’intrecciano nel teatro asiatico.
La Kang Nam I è salpata il 17 giugno dal porto di Nampo, sulla costa occidentale della Corea del Nord. Secondo fonti sudcoreane e i rilevamenti del lanciamissili americano che lo ha monitorato nel Mar della Cina, faceva rotta per la Birmania, dove avrebbe dovuto attraccare al porto di Thilawa, a sud di Rangoon. Il sospetto era che trasportasse armi o attrezzature per la costruzione di tunnel. Il quotidiano dissidente birmano The Irrawaddy ha ipotizzato che potesse trattarsi di componenti per lo sviluppo di un arsenale nucleare. Secondo altri la destinazione finale era il porto iraniano di Bandar Abbas.
AKANGNAM_P1
La Kang Nam nel suo Mystery Tour.
Quale fosse la meta della Kang Nam I e che cosa trasportasse è destinato a restare un mistero. Il 30 giugno, infatti, la nave ha invertito la rotta. Misterioso anche il perché. Secondo alcuni analisti dimostra l’efficacia della risoluzione 1874 delle Nazioni Unite, che autorizza a fermare qualunque mezzo nordcoreano sospettato di trasportare armi. Fonti dell’intelligence Usa cominciano a pensare che “la crociera verso il nulla” della “nave misteriosa” sia una diabolica manovra di Kim Jong-il, il tiranno nordcoreano, per confondere le acque o distrarre l’attenzione da altre manovre. Due giorni dopo l’inversione di rotta, la Corea del Nord ha effettuato il lancio di prova di 3 missili a corto raggio nel Mar della Cina. Intanto, mentre i generali della giunta birmana si dichiarano estranei a qualunque coinvolgimento, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon è in viaggio per Naypyidaw nella sua ennesima “mission impossibile”. Sembra la trama di un romanzo di Clive Cussler. Di cui abbiamo letto solo i primi capitoli: il Magical Mystery Tour della Kang Nam I potrebbe non finire qui...
|

Una bionda sul Mekong

La rivista Time l’ha definita la miglior birra d’Asia. Il New York Times le ha dedicato un articolo. È la Beer Lao, prodotta a Vientiane dalla Lao Brewery, società in compartecipazione tra lo stato Lao e la danese Carlsberg. Secondo gli esperti il suo segreto sta nel riso miscelato al malto che le conferisce un sapore “leggero e brioso”. Per ora solo l’un per cento della produzione viene esportato, ma la Lao Brewery sta organizzando una rete di distribuzione gestita in gran parte da viaggiatori che l’hanno apprezzata nell’atmosfera rilassata di un bar in riva al Mekong. Insomma la Beer Lao sembra destinata a diventare di moda. I più informati potranno accompagnarla a un cestino di khao niaw, riso glutinoso (non provateci proprio a usare le bacchette: va mangiato con le mani). Magari qualcuno si chiederà dov’è il Laos e che cosa ci succede. E’ la globalizzazione, bellezza.
Beer Lao e le altre
383beer_lao[1]
|

La follia del Delta

Un anno fa il ciclone Nargis devastava il delta dell’Irrawaddy, Birmania. In quei giorni morirono almeno 140.000 persone. Due milioni e mezzo di esseri umani persero tutto.
A distanza di un anno la vita dei sopravvissuti è ancora disperata. Dopo i primi, criminali ostacoli posti dalla giunta alle organizzazioni di soccorso, queste sono riuscite a evitare la seconda ondata di morti per fame e malattie. Ma oltre mezzo milione di persone non ha un riparo permanente, circa 200.000 non hanno acqua potabile. Dalle informazioni che filtrano dalle più remote zone del delta, solo il 10 per cento della popolazione riceve un’assistenza efficace. Tutti gli altri dipendono dai funzionari governativi. Si è così creato un ciclo perverso di corruzione e schiavitù. Per ricevere aiuto devono pagare i funzionari che controllano che controllano acqua, cibo, medicine. Ma per farlo sono costretti a indebitarsi e l’unico modo per pagare i debiti sono i lavori forzati. Facile comprendere perché nel delta dell’Irrawaddy le malattie mentali si diffondano come un’epidemia.


Per informazioni aggiornate sulla situazione birmana, visitate il sito di Burma Partnership.

|

Democrazia: controllata o comprata?

L’Asia, le Thailandia in particolare, sembra divenuta il laboratorio in cui si sperimentano e dibattono le nuove filosofie politiche. Se sia preferibile una “managed democracy”, una democrazia controllata, o una democrazia di stampo occidentale. Anche a costo di accettarne i limiti e le corruzioni. Nel video, diffuso dal quotidiano thai The Nation, l’ex premier Thaksin, in un momento di distrazione, ammette di aver pagato i suoi sostenitori.

Lo possiamo vedere perché siamo in democrazia o perché è una prova a carico della democrazia comprata (a poco più di 10 euro)?
|

Un indovino non mi ha detto

indovino
In Asia bisognerebbe sempre consultare un indovino prima di muoversi. Avrei saputo che, con Nettuno in opposizione al sole, la rivoluzione delle camicie rosse in Thailandia era destinata al fallimento. Avrei evitato un precipitoso ritorno a Bangkok da uno sperduto villaggio di minatori di Mindanao, Filippine.
Il cattivo auspicio per i seguaci dell’ex premier Thaksin è segnalato sulla prima pagina di The Nation, autorevole quotidiano thai in lingua inglese, del 15 aprile.
Oggi la capitale è semideserta. Non per lo stato d’emergenza, ma per il ponte di Songkran, la festa dell’acqua, ufficialmente allungato sino a venerdì.
Forse solo gli indovini attorno al Wat Pho, il tempio del Buddha Reclinato, sanno che cosa accadrà nei prossimi giorni. Secondo molti il primo ministro Abhisit Vejjajiva sta ritrovando la sua anima thai, che sembrava offuscata da un’educazione troppo inglese: ha recuperato il suo luak yen, il sangue freddo, e ha ristabilito il rapporto Yi-soong-ti-tam, fondamentale distinzione gerarchica che impone al superiore di dimostrarsi tale. Così, dopo aver “perso la faccia” annullando il vertice dell’Asean in seguito alle manifestazioni dei rossi, ha saldato il suo debito morale ristabilendo l’ordine a Bangkok. Il che potrebbe permettergli di mediare tra i suoi oppositori e i suoi stessi sostenitori. Secondo altri, però, è ostaggio della nobiltà e dell’esercito, cui deve la sua elezione, e non potrà attuare alcun cambiamento significativo.
Per comprendere davvero che cosa accadrà, ma anche che cosa è accaduto e sta accadendo bisognerebbe consultare gli indovini sparsi nel sud-est asiatico come i venditori di zuppa. Perché gli avvenimenti thailandesi riguardano tutta l’area. Il problema reale, infatti, è il modello politico da seguire. Un’alternativa tra “democrazia controllata” (che in Thailandia è rappresentata dai gialli) oppure “democrazia senza controllo” (incarnata dai rossi). Da un punto di vista occidentale è un falso problema, poiché la democrazia è solo una, definita dalla nostra tradizione culturale. Il che impedisce di comprendere la nuova Asia. Ha creato e continua a creare una serie di equivoci: ha portato a condannare Thaksin come corrotto multimiliardario populista e poi a sostenerlo, sia pure con riluttanza, come avversario dell’oligarchia.
Più che consultare un indovino sarebbe opportuno leggere “Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Per comprendere che la Storia non procede in modo lineare, meccanico, ma è un continuo trasformarsi e adattarsi alle situazioni.
|

Il Tempio Maledetto

DSCN7029
Sono ripresi i combattimenti per un antico tempio dedicato al dio Shiva. E’ arroccato su uno sperone roccioso delle montagne Dangrek, al confine tra Thailandia e Cambogia. Per i thai è il Phra Viharn, per i khmer il Preah Vihear.
Da secoli è conteso. A lungo compreso in territorio thailandese, nel 1962 fu assegnato alla Cambogia dalla Corte Internazionale di Giustizia in base ai confini tracciati dai francesi nel 1904. Nel 1975 fu occupato dai khmer rossi e nel 1979 divenne uno dei santuari degli uomini di Pol Pot, rifugiatosi ad Anlong Veng, 65 chilometri a est.
Riaperto nel 1998, per qualche tempo fu un’attrazione storico-turistica condivisa, tanto che i governi thai e cambogiano presentarono un’istanza comune affinché fosse dichiarato patrimonio culturale dell’umanità. Quando è accaduto, nel luglio scorso, il tempio è divenuto un simbolo di orgoglio nazionale per entrambi i paesi e pretesto per nuove rivendicazioni territoriali. Dopo qualche giorno di scontri è stata sancita una tregua. Ma le parti in causa non sono riuscite ad accordarsi nemmeno sul nome.
Il Tempio Maledetto sembra quello più consono. E’ uno scenario di fantasmi. Quelli di dei e demoni incisi sulle pietre. I neak ta, gli spiriti ancestrali per i khmer, e i phra phum, gli spiriti dei luoghi per i thai. Degli uomini uccisi dai khmer rossi e di quelli che cercavano di fuggire dalla Cambogia e furono ricacciati indietro, sui campi minati. Dei soldati di questo ennesimo scontro, vittime dell’eterno domino che si gioca in sud-est asiatico.
|

Il cappello di Panama di Hanoi

Nell’ultimo numero della rivista di bordo delle Vietnam Airlines appare una pagina pubblicitaria di Hermès. E’ la foto di un uomo che lancia in aria un cappello di Panama: un modello tradizionalmente bianco, con una fascia di seta blu e un sottile bordo sulla falda. Una piccola scritta precisa che è in vendita nella boutique di Hermès al Metropole Hotel di Hanoi.
In quella boutique un’elegante, raffinata commessa, quasi con aria di scusa dice che il cappello è stato venduto dieci minuti prima. Lo ha ordinato una signora di Saigon per regalarlo al marito. Costa 1200 dollari e la signora se lo è fatto spedire via aerea. Goodbye Vietnam.
|

Kiniao Chic

C’è un termine thai che molti farang, stranieri, di passaggio a Bangkok sentono ripetere ma non sanno che cosa significhi: kiniao. A dirlo, mimetizzato da un eterno sorriso, sono le ragazze dei bar. Vuol dire tirchio. Da qualche tempo kiniao si è raffinato, è diventato uno stile di vita: il kiniao chic.
In tempi di crisi globale non è più di moda essere ricchi. Soprattutto è meglio non apparire tali. Anche qui, in un paese buddhista, dove la ricchezza non è considerata un peccato da espiare ma un segno di buon karma.
E così qualcuno comincia a lasciare in garage la Lexus con targa benaugurante – le targhe si possono comperare, e quelle in cui compaiono o si ripetono numeri di buon auspicio come il 7 costano migliaia di dollari – evita di esibire abiti griffati o orologi da 10.000 dollari. Si diffonde una moda shabby, trasandata, sdrucita, no logo. I ricchi cercano di proteggersi ingannando la povertà.
Per altri la crisi impone la necessità di riflettere su codici morali e sociali. Diventa sempre più forte il richiamo del “Buddhismo impegnato”, movimento che s’ispira agli insegnamenti del monaco vietnamita Thich Nhat Hanh e del thailandese Buddhadasa Bhikkhu. L’essenza della loro dottrina sta nel tentativo di connettere la purezza originaria del buddhismo ai problemi sociali contemporanei.
Oltre le mode e le tendenze culturali, però, il fenomeno potrebbe trasformarsi ancora. Nell’aria umida del sud-est asiatico, le prossime piogge sembrano cariche di presagi. C’è una minoranza per cui il kiniao è la divisa di una nuova casta di asceti-guerrieri. Per loro la crisi segna il crollo dell’Occidente e dei suoi valori, la democrazia innanzitutto. E quindi l’ineluttabile necessità di una rivoluzione culturale. Guardie Rosse e Khmer Rouge sono stati i primi modelli di stile kiniao.

|

La giustizia va servita fredda ?

Sono passati trent’anni, un mese e qualche giorno da quando le truppe vietnamite entrarono a Phnom Penh, il 9 gennaio 1979, e posero fine a “quei 3 anni, 8 mesi, 20 giorni” iniziati nell’aprile 1975, quando in Cambogia si materializzò l’inferno terrestre dei khmer rossi.
Gli ultimi demoni di quel periodo saranno giudicati in un processo che inizia il 17 febbraio con le udienze preliminari della Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (
ECCC). Sotto il dominio dei khmer rossi, in quella che divenne la Repubblica Democratica di Kampuchea, si stima siano morti un milione e mezzo di cambogiani su una popolazione di sette milioni. Molti furono torturati e uccisi. Molti di più morirono di fame, fatica e malattie nei campi di lavoro dove furono deportati come schiavi per realizzare l’utopia di purificazione comunista e del ritorno alle origini contadine sognata dal Saloth Sar, meglio conosciuto come Pol Pot. “I diritti individuali non furono sacrificati per il bene collettivo, ma furono aboliti in quanto tali. Ogni espressione dell’individualità umana fu condannata in sé e per sé. La coscienza individuale venne sistematicamente demolita” scrive lo storico Philip Short nel saggio Pol Pot.
Da allora la Cambogia ha vissuto altri vent’anni di guerra civile, ultima vittima della guerra fredda e della folle logica dei blocchi, per cui gli Stati Uniti sostenevano indirettamente gli ultimi khmer rossi, asserragliati nei loro santuari nel nord del paese in funzione anti-vietnamita. Per i troppi scheletri, reali e simbolici, disseminati nel paese come le mine, ci sono voluti altri dieci anni di battaglie politiche e finanziarie per arrivare al giudizio, che vede pochi e vecchi khmer rossi alla sbarra.
Il principale imputato è Kaing Guek Eav, alias Duch, ex resposabile del Tuol Sleng la scuola che divenne la prigione e il centro d’interrogatori dell’S21, il servizio di sicurezza dell’Angka, “l’organizzazione”. In un filmato girato dai vietnamiti 3 giorni dopo il loro arrivo si vedono ancora i cadaveri nelle sale di tortura.
Dobbiamo confrontarci con quegl’incubi anche o proprio perché sono passati trent’anni. E il tempo rende più forte la tentazione o la possibilità di negare.
|

Il Triangolo d’Oro fiorisce ancora

Chiang Saen. In questa città dell’estremo nord thailandese il Mekong forma un’ansa che si incunea nel Regno, segnando a est il confine con il Laos e a ovest con la Birmania. Delimita il territorio noto come “Triangolo d’Oro”. Il papavero da oppio cresce bene nel suolo alcalino di questo tratto di fiume. Secondo l’ultimo rapporto dell’Office on Drugs and Crime delle Nazioni Unite (UNODC) sembra destinato a rifiorire.
Sino al 1959 la produzione e il commercio dell’oppio erano monopolio di stato thailandese, in un gigantesco giro d’affari che coinvolgeva militari thai, signori della guerra birmani, reduci cinesi del Kuonmintang, l’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek, ulteriormente alimentato dai movimenti di guerriglia comunisti e dalla CIA. La situazione si complicò negli anni Sessanta, quando l’oppio fu dichiarato illegale anche in Thailandia e con l’acuirsi dei conflitti in sud-est asiatico.
Negli ultimi vent’anni la produzione era calata grazie soprattutto alla riconversione delle colture in Laos e in Thailandia. Qui, poi, la cosiddetta guerra alla droga dichiarata dall’ex premier Thaksin Shinawatra aveva letteralmente decimato sia gli ettari di coltivazione sia i trafficanti e i produttori, con un bilancio di oltre 2500 esecuzioni extragiudiziali. Thaksin, deposto da un colpo di stato nel settembre 2006, oggi è sotto inchiesta per violazione dei diritti umani. Intanto la produzione d’oppio è aumentata di oltre il 20 per cento.
In realtà, secondo il rapporto dell’UNODC, il rifiorire dei campi di papaveri è determinato dalla concomitanza di due fattori: l’aumento del prezzo dell’oppio grezzo e la crisi economica (che da queste parti è anche alimentare). Tale congiuntura fa prevedere che il prossimo anno molti contadini, specie birmani, riprenderanno le antiche tradizioni. Con una differenza: a quanto sembra sono soprattutto i più giovani, addirittura gli adolescenti, a far ritorno ai campi.
|

Nessuno li vuole. A parte i trafficanti d’uomini

I Rohingya sono gli unwanted, gli indesiderati del sud-est asiatico. Sono anche gli ignoti. Sono una minoranza etnica di religione musulmana stanziata nella regione birmana dell’Arakan, sul Golfo del Bengala. Per l’autocratica giunta birmana non hanno diritto di nazionalità. In nome del mahan lumyogyi naingnngan, di una nazione monolitica, una specie di reich birmano, i rohingyas sono perseguitati, discriminati, schiavizzati. Condannati a vivere in un ciclo di povertà, repressione, fuga, cattura e sfruttamento.
La fuga è verso il vicino Bangla Desh, in cerca di solidarietà etnica e religiosa. Ma solo i più fortunati riescono a ottenere lo status di rifugiati. La maggioranza sopravvive attorno ai campi profughi. Molti si consumano facendo i conducenti di risciò nella città di Cox Bazar.
E così, tra dicembre e marzo, quando il monsone invernale porta bel tempo e calma le acque del mar delle Andamane, i Rohingyas riprendono la fuga. S’imbarcano su battelli sgangherati cercando di raggiungere la Thailandia, la Malaysia o addirittura l’Indonesia. Scompaiono in mare a centinaia, muoiono di fame, di sete, divorati dagli squali.
In questo periodo se ne parla, almeno nei giornali dell’area, perché la marina thai è stata accusata di aver ricacciato in mare un migliaio di boat people rohingyas, abbandonandoli al loro destino con due sacchi di riso e due galloni d’acqua per barca. Di cinquecento di loro non si hanno più notizie. Altri sono detenuti in attesa d’essere rimpatriati. Secondo alcuni osservatori la Thailandia vuole evitare che le sue coste orientali siano invase da flussi sempre maggiori di profughi dalla Birmania e dal Bangla Desh. Senza contare che alcuni Rohingyas potrebbero essere reclutati dai movimenti islamici attivi nell’estremo sud del paese. Per qualcuno il blocco potrebbe essere una fortuna. L’ingresso di rifugiati clandestini molto spesso è organizzato dai trafficanti di uomini. Sono gli unici a volere i Rohingyas.
|