Dispatches

Il vero lato oscuro

Volevo scrivere una storia su “La follia di Almayer”. Il libro di Conrad e il quadro di René Magritte. Mi stavo perdendo tra tutte le connessioni e le coincidenze “culturali” che sembravano ricondurre alle disillusioni della vita. Poi ho lasciato perdere. Mi sembrava forzato: il narcisismo delle tenebre. Ho messo da parte il tutto per un altro momento.
Poi mi è arrivato un comunicato che mi ha fatto capire che il vero errore, spesso, è riferire tutto a noi stessi. Osservare il dito che la indica e non la luna. Le vere tenebre sono i crimini nascosti attorno a noi. La materia oscura.
Quel comunicato segnalava il Global Slavery Index 2013. Prodotto dalla Walk Free Foundation (WFF) analizza la situazione globale della schiavitù. Intesa come schiavitù vera e propria, lavoro forzato, traffico di esseri umani e pratiche quali la costrizione indotta dall’usura, i matrimoni forzati, lo sfruttamento di uomini e bambini.
Nel mondo ci sono trenta milioni di persone in queste condizioni. La maggior parte concentrati in Africa e Asia. Il più alto numero nei due paesi che dovrebbero rappresentare il futuro del pianeta: India e Cina.
Il quadro di Magritte diviene davvero un simbolo.
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Per scaricare il rapporto clicca
qui.

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Le regole della catastrofe

Il rischio di guerra nel Mar della Cina del Sud cresce in maniera esponenziale di ora in ora. Non una guerra globale ma locale. Anzi glocal, una guerra globale giocata in forma locale. Tra Filippine e Cina ad esempio, stando agli ultimi episodi. Che potrebbe concludersi rapidamente o evolvere.
Nel frattempo, attorno a questo scenario, si compone una trama di analisi che dicono tutto e il contrario di tutto. Tra queste segnaliamo il rapporto di Bonnie S. Glaser, del Center for Strategic & International Studies.
Pasted Graphic
Full Text of Memorandum (per gentile concessione del Council on Foreign Relations).
Interessante anche l’articolo di Robert D. Kaplan, America's Pacific Logic.
In realtà, più che a comprendere davvero ciò che accade, sono utili a farsi un’idea di quanto il nostro mondo sia governato da nuove leggi della complessità, sempre più rappresentabile come un sistema caotico. E in questa prospettiva è bene ricordare che la teoria del caos è anche definibile come la teoria delle catastrofi.
In attesa della farfalla che muova quella piccola onda nelle acque del Mar della Cina che potrebbe trasformarsi in uno tsunami planetario.
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Merda

Buffi? Sgradevoli? Interessanti? Osservate i grafici, i disegni qua sotto. Sono stati realizzati per la World Toilet Organization, che si propone di migliorare la qualità della vita dei più poveri del pianeta. Coloro che, letteralmente, vivono nella merda.
Sono questi i progetti che hanno un senso reale, concreto, effettivo. Ben oltre gli sproloqui su globalizzazione, perdita d’identità culturale che si sentono ripetere troppo spesso. Per molti, infatti, identità culturale, significa anche mancanza di servizi igienici, malattie, morte.
Lack of Sanitation
Created by: OnlineNursingPrograms.com

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Il Grandissimo Gioco

Il nuovo scenario del Grande Gioco, in versione molto più ampia e complessa, è il Mar della Cina. Il termine Grande Gioco – tornato in auge con un saggio di Peter Hopkirk – definisce lo strisciante conflitto, caratterizzato soprattutto dall'attività delle diplomazie e dei servizi segreti, che contrappose Gran Bretagna e Russia in Asia Centrale nel corso del XIX secolo.
Quello attuale ha una dimensione immensamente più ampia: 3.5 milioni di chilometri quadrati d’oceano, che molti analisti hanno già definito il teatro, reale o virtuale, della terza guerra mondiale. I giocatori principali sono Cina e Stati Uniti, con la partecipazione, in vario grado e forma, di Vietnam, Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapore e Brunei, nonché di Giappone, Taiwan e Corea. La posta è il controllo strategico dell’area, delle sue risorse minerarie, delle sue vie di comunicazione. Quelle acque sono intersecate dalle cosiddette Sea Lines of Communication, le linee marittime di comunicazione da cui Pechino dipende per i rifornimenti di greggio e materie prime dall’Africa e dal Medio Oriente.
Per complessità del problema e il numero di partecipanti, in effetti, più che di Grande Gioco bisognerebbe usare la definizione che gli davano i Russi: il Torneo delle Ombre.
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Su questo scenario si sono sviluppate trame d’ogni genere, reportage, cronache, romanzi, saggi, trattati di strategia. Uno degli ultimi è Red Star over the Pacific: China’s Rise and the Challenge to US Maritime Strategy, di James Holmes e Toshi Yoshihara.
Ma uno dei documenti più interessanti, anche nella sua apparente semplicità, è l’articolo pubblicato sulla US Naval War College Review da Andrew Erickson, Abraham Denmark e Gabriel Collins: Beijing’s ‘Starter Carrier’ and Future Steps: Alternatives and Implications.

Ne pubblichiamo una prima parte (compresa la mappa in questo post) per gentile concessione di Andrew Erickson, che lo ha originariamente pubblicato sul suo sito.
mappa

"Alle 05.40 ora locale di mercoledì 10 agosto 2011, più di ottant’anni dopo che l'idea originaria era stata avanzata, la prima portaerei cinese, nascosta dalla nebbia e sotto stretta sorveglianza, è salpata da un molo di Dalian, nel porto di Xianglujiao, nella provincia nordoccidentale di Liaoning, per iniziare le prove in mare nel golfo di Bohai e nel Mar Giallo.
Questa è stata un’altra occasione per la Cina di celebrare la sua ascesa come grande potenza. Dal giorno del varo la nazione arde d’orgoglio patriottico per l’obiettivo raggiunto. Il Maggior Generale Luo Yuan, vice segretario generale della Società Cinese di Scienze Militari, ha dichiarato: “Chi ben comincia è a metà dell’opera… Il senso di avere qualcosa è completamente diverso da quello di avere nulla".
Sono già in fase avanzata i piani per celebrare questa nuova era di potenza marittima cinese e ricavarne anche profitto. Tianjin, una delle quattro municipalità della regione, prevede l'apertura del primo hotel-portaerei cinese, ricavato dalla Kiev, un tempo punta della flotta sovietica del Pacifico e ora al centro dell’
Aircraft Carrier Tianjin Binhai Theme Park. Un’ammiraglia cinese del calibro della Kiev è ancora da venire, ma Pechino ha fatto il primo passo e sta già godendo i frutti del nuovo potere, in patria e fuori. Prima che gli strateghi stranieri comincino ad andare in affanno su “l’inizio della fine”, tuttavia, è necessario prendere fiato.
La crociera inaugurale della prima portaerei cinese è iniziata dopo sei anni di lavori ed è durata solo quattro giorni. La nave – acquistata dall’Ucraina ancora incompleta nel 1998 – è di utilità militare molto limitata. Serve soprattutto a conferire prestigio a una nascente superpotenza, aiuta i cinesi ad approfondire le tattiche base della forza aeronavale e proietta un’immagine di potenza militare forse e soprattutto contro i più piccoli vicini alla periferia del Mar Cinese Meridionale. Questo non è l'inizio della fine, è la fine dell'inizio.
Per realizzare le sue ambizioni future, la Cina ha dovuto cominciare da qualche parte. Verso la fine del 2010 è venuto a mancare l'ammiraglio Liu Huaqing, padre della moderna marina militare cinese. Liu aveva cercato di sviluppare la marina, da iniziale forza da "acque verdi" costiere, a una successiva, possibile marina da “acque blu”, in grado di estendere il raggio d’azione regionalmente se non globalmente. Liu aveva precisato che lui non era la versione cinese di
Alfred Thayer Mahan, ma il suo concetto di "difesa dei mari vicini" era piuttosto paragonabile alla visione di Mahan sulle necessità strategiche della marina statunitense (ad esempio, il controllo del Golfo del Messico, i Caraibi, Panama e le Hawaii). La chiave per la realizzazione del progetto di Liu era una portaerei. Si ricorda ciò che disse nel 1987: «Anche dopo morto i miei occhi si chiuderanno solo dopo aver visto una portaerei cinese». Ora l’Ammiraglio Liu può chiudere gli occhi.
In gran parte della regione Asia-Pacifico, come tra gli analisti di strategie asiatiche negli Stati Uniti, si è acceso il dibattito sulle implicazioni dello sviluppo di portaerei cinesi.
L'ammiraglio Robert Willard, a capo dell’U.S. Pacific Command, nell’aprile 2011 ha dichiarato di non essere “preoccupato" che la prima portaerei cinese prendesse il mare, ma ha ammesso che “in base alle reazioni dai nostri partner e alleati nel Pacifico, ritengo che il cambiamento nella percezione da parte loro sarà significativo"
Il generale di brigata australiano John Frewen sostiene che "le non intenzionali conseguenze delle portaerei cinesi rappresentano la maggiore minaccia per l'armonia regionale nei prossimi decenni".
L’ex direttore dell’Intelligence militare del ministero della difesa giapponese Japan Defense Agency, l’Ammiraglio in pensione Fumio Ota, afferma che "I dibattiti sulla prima portaerei cinese. . . segnano l'inizio di un’ importante transizione nella strategia navale…Le portaerei forniranno a Pechino enorme potenzialità e flessibilità. Una portaerei cinese potrebbe rappresentare una seria minaccia all’integrità territoriale del Giappone…La nuova portaerei cinese aumenta le sua possibilità tattiche e le sue opportunità di ampliare il raggio d’azione strategico. Altri paesi della regione dovrebbero essere preoccupati".
Eppure, mentre nella regione Asia-Pacifico si dibattono molto le implicazioni della portaerei cinese, dovrebbe essere poco sorprendente che una portaerei cinese sia finalmente riuscita a salpare. Ciò che è più sorprendente riguardo il programma di una portaerei cinese, infatti, è che ci abbia messo tanto tempo a realizzarsi.
Dato che le voci su una portaerei circolavano nella comunità strategica cinese da decenni, avrebbe dovuto essere chiaro in tutta la regione che prima o poi si sarebbero avverate.


Aggiornamento post lettura: pochi giorni fa il Presidente cinese Hu Jintao ha comunicato che il personale della marina cinese deve “intensificare i preparativi per azioni di guerra”. In altre traduzioni la parola “guerra” è sostituita da “combattimenti” o “impegni militari”. Diretti contro chiunque minacci la sovranità nazionale sul Mar della Cina.
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La banalità del male

Vecchi, brutti e cattivi. Sono i quattro imputati nel secondo caso della Corte Straordinaria istituita dall’Onu in seno ai Tribunali Cambogiani per giudicare i crimini del regime dei khmer rossi di Pol Pot.
Sono i leader ancora vivi dell’Angka, “l’organizzazione” che tra il 1975 e il 1979 trasformò la Cambogia in un inferno terrestre. In “quei 3 anni, 8 mesi, 20 giorni”, come qui definiscono quel periodo, in Cambogia morirono circa due milioni di persone, uccise dai khmer rossi, dalla fame o dalla fatica. Circa tre milioni furono costrette ad abbandonare le città per lavorare nei campi. Decine di migliaia sparirono nei campi di sterminio.
Quei vecchi sono: Khieu Samphan, 79 anni, allora formale capo di stato della Kampuchea Democratica; Nuon Chea, 84, l’ideologo dei khmer rossi; Ieng Sary, 85, il ministro degli esteri, e sua moglie, Ieng Thirith, 79, ministro degli affari sociali.
L’elenco delle accuse è agghiacciante: crimini contro l’umanità, genocidio, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione, persecuzione razziale e religiosa, tortura…e “altri atti inumani”.
Tutti si sono proclamati innocenti. Sary perché nel 1996 re Norodom Sihanouk gli aveva garantito il perdono. Sampan e Thirith perché affermano che nella loro posizione non erano in grado di capire bene che cosa stesse accadendo. Nuon Chea si difende con il teorema secondo cui non si possono giustificare quegli avvenimenti estrapolandoli dal contesto storico: i bombardamenti americani, le minacce vietnamite. L’uomo denominato “Fratello Numero 2” sostiene: “Io perseguivo il sogno di una società agraria egualitaria. E’ l’Impero che dovrebbe essere sul banco degli accusati, non io”. Inseguendo quel sogno anche Sary aveva ammesso, seppure in segreto, che i khmer rossi volevano ridurre la popolazione cambogiana da 7 milioni a 1, così si sarebbe ottenuto l’equilibrio perfetto. Era la tesi elaborata anni prima di Khieu Sampan. Quel sogno si materializzò nel progetto di Saloth Sar, noto come Pol Pot, il “Fratello numero 1” dei khmer rossi: un ibrido estremo di marxismo, maoismo, ultranazionalismo arcaico. “I diritti individuali non furono sacrificati per il bene collettivo, ma furono aboliti in quanto tali. Ogni espressione dell’individualità umana fu condannata in sé e per sé. La coscienza individuale venne sistematicamente demolita” scrive Philip Short nel saggio Pol Pot.
Le udienze preliminari si sono svolte la settimana scorsa, ma il processo entrerà nel vivo solo tra qualche mese e potrebbe protrarsi per anni: le parti civili sono quasi 4000, gli atti processuali assommano a oltre 450.000 pagine. In questo caso la vecchiaia è un vantaggio: non assolve, ma può evitare la condanna o lo scontare della pena.
Forse chi riuscirà a scontare la pena e avrà ancora tempo da vivere libero è l’imputato del primo processo della Corte Straordinaria Cambogiana, concluso lo scorso anno. E’ Kaing Guek Eav, 68 anni, noto come “Compagno Duch”, prima segretario e poi direttore del Tuol Sleng, prigione e centro d’interrogatori dell’S21, il servizio di sicurezza dell’Angka. Vi sono passate dodicimilatrecentoottanta persone. Ne sono sopravvissute 15. Duch è stato condannato a 35 anni, poi ridotti a 19.
Lui, l’ho visto di persona durante il processo. L’ho osservato per scoprire se manifestasse i segni di quella giallezza morale che è il segno del male. Senza riuscirci, se non nell’immaginazione. Ora continuo a guardare le foto e le riprese di quei quattro vecchi. Alla fine non mi appaiono così brutti, non mi trasmettono vibrazioni maligne. Ma comincio a capire il senso di quella che Hannah Arendt definì "la banalità del male". Fu la filosofa tedesca a teorizzare che il male compiuto in nome della politica non è un mezzo per raggiungere uno scopo. E’ esso stesso lo scopo. Non ci sono leggi della storia o della natura che lo possano giustificare. Si autoalimenta come un cancro. E’ la migliore risposta, se ci fosse bisogno di risposte, alla “difesa” di Nuon Chea.
“I regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile" ha scritto la Arendt ne “Le origini del totalitarismo”. Attenzione: impunibile non significa che non dev’essere punito. Bensì che non c’è punizione che valga.

Un video del Cambodia Tribunal Monitor. Presenta le reazioni dei cittadini alla proposta di rilasciare gli imputati in attesa di giudizio. Guardarlo: è un esercizio sulla natura umana. All’inizio potete vedere quei vecchi e giudicare voi. Si osservano altri segni del male, dell’indifferenza o della stupidità. E c’è anche un bel vecchio che, mi sembra, interpreta il Bene.

Cambodian Citizens React to ECCC Hearing on Application for Release of Indicted Khmer Rouge Officials from Cambodia Tribunal Monitor on Vimeo.


Per informazioni dettagliate e aggiornate sul processo clicca qui e qui.

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Se sei un padre...

E’ stata presentato il World Drug Report 2011 realizzato dell’Unodc, l’ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il crimine
La situazione planetaria, tutto sommato, è stabile: “oppiacei in calo, aumento di cocaina e droghe sintetiche” è stato scritto, come in un bollettino finanziario.
Un po’ in controtendenza il Sud Est Asiatico. In Birmania è aumentata la coltivazione e la produzione dell’oppio (580 tonnellate metriche nel 2010).
“Un misto tossico di problemi”: così ne ha spiegato la causa Gary Lewis, rappresentante dell'Unodc per l'Asia orientale e il Pacifico. “In Myanmar c’è moltissima gente che vive in zone di guerra. Il problema è trovare denaro. O per sopravvivere o per combattere...La situazione di carenza di cibo negli stati Shan è tremenda. Se sei un padre di famiglia fai quello che puoi".
Oltre ogni considerazione sui risultati e sull’efficacia delle agenzie dell’Onu, uomini come lui danno qualche speranza. Perché non parlano per astrazioni, non giudicano, agiscono. Nonostante tutto. “Non possiamo parlare di sradicamento” ha detto, riferendosi sia alle coltivazioni sia al problema in generale.“Cerchiamo di operare per il contenimento”. Una lezione di realtà, onestà morale.
WDR11_Posters_Main-drugs_thumbnailPer scaricare la sintesi del rapporto clicca qui
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Le città dell'Apocalisse

Guerre, terrorismo, edifici saltati in aria e palazzi bombardati, tsunami, tornado, tifoni, terremoti, alluvioni: le “città traumatizzate” sono sempre più spesso protagoniste della cronaca quotidiana. Gli spazi urbani sono segnati dalle ferite e dalle cicatrici di questi disastri. Come possono essere compresi gli effetti del trauma in termini urbani? Che cosa può fare l’architettura per un pianeta in guerra con se stesso? Un nuovo saggio analizza le conseguenze dei traumi sulle città, sulle comunità e culture. Post Traumatic Urbanism - pubblicato nella serie Profiles dell’Architectural Design Magazine, a cura dell’University of Technology Sydney, realizzato da Adrian Lahoud, Charles Rice e Anthony Burke - esplora la risposta di architetti e urbanisti a questi eventi catastrofici.
post traumatic book cover
Per quanto l’intervento d’emergenza e la ricostruzione siano fattori essenziali, gli architetti devono comprendere in modo più profondo gli effetti del trauma sulle città e le popolazioni che le abitano. Devono restaurare e recuperare ciò che si è perduto o dovrebbero vedere le città post-trauma come uno spazio per nuove possibilità?
Il post-trauma non è più l'eccezione. E’ la condizione globale.

Nelle Storie trovate uno stralcio dell’introduzione di Adrian Lahoud, architetto, urbanista e ricercatore. E’ un breve testo, complesso, astratto. Ma è proprio nel distacco della freddezza scientifica che possiamo osservare gli effetti del trauma più lucidamente. La condizione è che osservare implichi un’azione conseguente.
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Questo non è un film

«Questo non è un film, questa è la realtà» dice Ashin Sopaka, monaco birmano. E’ vero: per noi la realtà birmana troppo spesso è un film, una notizia in tv.
Oggi quella realtà appare in un breve documentario realizzato dalla Burma Partnership in collaborazione con la Kestrel Media. Si intitola “This is Not Democracy”. Spiega perché i birmani non credono che le prossime elezioni siano un primo passo verso la democrazia, bensì un modo per rafforzare il regime militare sotto una facciata civile. Oltre la testimonianza di Ashin Sopaka presenta interviste con Naw Htoo Paw della Karen Women’s Organization e con U Win Hlaing, della National League for Democracy.
C’è da guardare e ascoltare. Ci sono scene molto poco piacevoli da vedere. Soprattutto se ricordiamo che questo non è un film. E’ realtà.

Burma's 2010 Election: This is NOT Democracy from Kestrel Media on Vimeo.

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The Toilet Man

«M’interesso del fondo dell’umanità, degli scarti umani» dice Jack ridendo. Ma non scherza: è vero, in tutti i sensi. Jack Sim, soprannominato The Toilet Man, è il fondatore della World Toilet Organisation, un’organizzazione non-profit focalizzata proprio su questo: le tecnologie, lo sviluppo, il design e tutto ciò che è collegato alle strutture igieniche là dove sono inefficienti o inesistenti. «La cosa più difficile, molto spesso, è rompere il tabù che circonda questo problema» dice Jack. «Spesso ci riesco dicendo: vuoi che gli altri vedano tua madre, o tua moglie o tua figlia mentre fa i suoi bisogni?».
Jack Sim
Jack Sim è stato uno dei protagonisti di un convegno che si è svolto a Singapore organizzato da Qi, un think-tank, un laboratorio, in cui studiano nuovi ecosistemi sociali, culturali, economici. Tutti rigorosamente sostenibili, ecologici, compatibili, equi, solidali. Vi hanno partecipato alcuni degli intellettuali più creativi che oggi operano in Asia. Ma quella di Jack è stata una delle relazioni più divertenti, interessanti e, soprattutto, illuminanti. Forse perché, anche per noi, quello della toilette – del cesso, scriviamolo – è un argomento tabù, imbarazzante. Forse perché non riusciamo a immaginare come si possa vivere senza un bagno. Non una doccia, un lavandino, una vasca. Senza un water, un cesso, appunto. Accade così, invece, a centinaia di milioni di persone che vivono negli slum e nelle aree rurali dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. A molti di quelli che gli economisti, in questo caso senza sottintesi e in forma ben più asettica, definiscono BOP, con un acronimo che significa Bottom of the Pyramid. Il più grande e povero gruppo socio-economico del pianeta. Circa 2 miliardi e mezzo di esseri umani (secondo le stime più ottimiste) che vivono con meno di 2 dollari e mezzo il giorno.
Certo, proprio in occasione del convegno Qi Global sono stati presentati molti progetti per combattere la povertà: da quello di IIX Asia (Impact Investment Exchange Asia), una Borsa che permette la raccolta di capitali a imprese con obiettivo sociale, a quello della rubanisation, ossia la creazione di un nuovo modo di vivere in città rurali, le ruban, centri autosufficienti dove gli individui lavorano connessi alla famiglia e alla società, i villaggi del prossimo secolo, dove ricreare i valori comunitari
In questa linea di progetti s’inserisce anche l’ultimo rapporto dell’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), secondo cui la ICT, ossia la Information and Communication Technology, può rivelarsi una formula per produrre ricchezza in paesi a basso livello di istruzione ed economia (per scaricare il rapporto completo clicca qui). Mettendo assieme ruban e ICT, ad esempio, si possono prevedere microimprese delocalizzate che utilizzano Internet.
Prima, però, bisogna poter vivere in maniera decente. Magari con l’aiuto di Jack, The Toilet Man.
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La ciotola è vuota

Molti la vedono piena. Anzi traboccante, una specie di vaso magico da cui attingere nuovi tesori. Sono gli analisti finanziari che studiano i mercati emergenti, i paesi del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) e si spingono ancor oltre, tra mercati di frontiera come Thailandia, Filippine, Indonesia.
Per un non adepto le loro analisi suonano tanto esoteriche quanto attendibili. La ciotola asiatica sembra fonte di straordinarie ricchezze. Peccato che, nella maggior parte dei casi, la geopolitica sia considerata un elemento marginale. Ci si limita a segnalare rischi d’instabilità e corruzione. The Economist, in un recente editoriale, The Last Great Hope, avverte che i mercati emergenti possono rivelarsi la prossima bolla economica.
Ma non si delinea un quadro reale. Manca del tutto la visione antropologica. «L’immagine che abbiamo della Cina e di molti altri paesi è quella degli amministratori delegati e dei politici che volano a Shanghai e a Pechino e non si rendono conto di com’è la realtà più profonda» dice il professor Gordon Mathews del dipartimento di antropologia della The Chinese University of Hong Kong.
Lo stessa distonia culturale si manifesta nelle analisi politiche. E’ il caso, ad esempio, delle prossime elezioni birmane. Secondo David Mathieson, ricercatore dello Human Rights Watch, «Nella comunità europea si è creata la strana percezione che le elezioni rappresentino davvero un primo passo verso la democrazia». E’ accaduto perché «Gli eurocrati preferiscono andare a Rangoon e incontrare le elite emergenti, mentre ignorano le comunità etniche lungo i confini perché è troppo scomodo, complicato e fuori moda».
Ci vorrebbe una rivoluzione pari a quella del principio di indeterminazione, del teorema di incompletezza, che hanno annichilito le nostre certezze scientifiche. In un certo senso è ciò che ha fatto Nassim Nicholas Taleb, docente di scienze dell’incertezza, nel suo libro Il Cigno Nero. Secondo Taleb, noi agiamo come se fossimo in grado di prevedere gli eventi, continuiamo a concentrarci su ciò che è conosciuto. Il mondo, invece è dominato da ciò che è estremo, sconosciuto e molto improbabile: il Cigno Nero.
Le nuove analisi planetarie, insomma, esigono una visione più alta e sottile, che riesca a coniugare modelli economici, politici e filosofici. Una sorta di meta-analisi. Idea intuita qualche anno fa da Pietro Citati nel saggio “Le scintille di Dio”: “Un tempo, i saggi uomini politici si facevano accompagnare da esperti di teologia o erano essi stessi eccellenti teologi. Oggi la teologia è disprezzata o praticata da persone di quart’ordine. Per il bene dell’universo, sarebbe giusto che rifiorisse al più presto».
Se ciò accadesse, se la metafisica divenisse strumento di valutazione, ci accorgeremmo che la ciotola, molto spesso, è vuota.
Lo è per un miliardo di persone che soffrono di fame cronica, due terzi dei quali concentrati in Asia. Lo precisa un rapporto della Asia Society in collaborazione con l’International Rice Research Institute: Never an Empty Bowl.
Un’altra ricerca presentata dalla Asia Society e realizzata da Medici Senza Frontiere documenta la situazione di 195 milioni di bambini che soffrono di malnutrizione. Il video Terrifing Normalcy del documentarista Ron Haviv presenta la loro tragedia in Bangla Desh.

Certo, si tratta del Bangla Desh, paese che ancora nessun analista si azzarderebbe a definire economia emergente (sino a quando?). Ma scene del genere, spesso peggiori, ti si vomitano addosso in tutta l’area. Se solo esci da un grattacielo dei centri finanziari e ti avventuri nelle campagne, nei villaggi, negli slum che spesso si trovano ai piedi di quei grattacieli.
Scrisse Sze Ma Chien, storico cinese del I secolo a.C. : “Il mondo accorre dove chiama il denaro. Il mondo si precipita dov’è più forte il guadagno”.
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La tela del ragno

C’erano una volta i Signori della Droga degli stati Shan, territorio birmano incuneato tra Thailandia, Laos e Cina, là dove il terreno è propizio alla coltivazione dell’oppio. Alcuni di loro, come Khun Sa, avevano assunto una dimensione quasi epica. Apparivano personaggi da Cuore di Tenebra. Spesso si ergevano a paladini di una causa etnica. Giustificavano i loro traffici con la necessità di finanziare un esercito che difendesse il loro popolo dagli attacchi di quello birmano. Poi presero il sopravvento le rivalità tribali tra i diversi gruppi, che al tempo stesso si contendevano il mercato dell’oppio, dell’eroina e della ya baa, la droga pazza, la micidiale metanfetamina che ha inondato l’Asia e ne ha incrementato lo sviluppo, permettendo agli uomini di sottoporsi a ritmi di lavoro da cavallo (questo era il nome originario, ya ma, droga da cavalli, a significarne la straordinaria potenza). Ad approfittarne furono i birmani, che, in perfetto stile “divide et impera”, proposero una tregua ai diversi gruppi. Molti accettarono, pensando di potersi concentrare sui più diretti avversari e accrescere i profitti della droga. Come fecero gli ex tagliatori di teste Wa (di origine cinese), acerrimi nemici degli Shan (di ceppo etnico thai), che divennero, secondo un rapporto della Cia, il più grande esercito di produttori e distributori di droga del mondo. Ma poi il governo birmano alzò la posta, chiedendo alle milizie che avevano accettato la tregua di entrare a far parte della Border Guard Force, le guardie di frontiera, alle dirette dipendenze dell’esercito nazionale. Al loro rifiuto ripresero con maggior violenza gli attacchi contro gli stati ribelli, giustificandoli come lotta alla droga. «Stiamo combattendo per voi (gli occidentali). Per noi la droga non è un problema» ha dichiarato il colonnello Hla Min, portavoce dell’SPDC (lo State Peace and Development Council, nome ufficiale dell'organismo con cui governa il regime militare birmano).
Secondo un rapporto dell’agenzia stampa Shan, con questa manovra l’esercito non sta combattendo la produzione e il traffico di droga. Cerca di sostituire chi li controlla. Approfittando della pressione esercitata sui gruppi etnici, ha costituito milizie locali (se ne contano 400 gruppi solo negli stati Shan del nord). Le milizie dividono coi militari i profitti della droga e li aiutano nella lotta ai gruppi etnici armati. In cambio ottengono protezione, impunità e facilitazioni nel business. Molti dei loro comandanti sono stati addirittura candidati alle prossime elezioni nelle liste dell’Union Solidarity and Development Party, il partito con cui la giunta cerca di ricrearsi un’immagine democratica. Sono stati definiti i “signori della droga politicamente corretti”.
La storia documentata nel rapporto dello Shan Drug Watch è solo l’ultimo filo di un’infinita ragnatela intessuta da ragni di ogni specie: gruppi tribali, guerriglieri comunisti e anticomunisti, Cia, mafia, ex militanti del Kuomintang, il partito nazionalista cinese, indipendentisti etnici. E’ una trama, in realtà, che risale a migliaia d’anni fa. Se non fosse tragica per le vittime che provoca in tutto il mondo, potrebbe apparire affascinante. Così accade, perché storicizzata, nel saggio di Pierre Arnaud-Chouvy, del Centre national de la recherche scientifique francese, specialista in geopolitica della droga: Opium.
Oggi il ragno è l’esercito birmano: tramite le milizie locali cerca di controllare il territorio nazionale e, con la diffusione delle droghe tra i giovani delle etnie autonomiste, operare una forma sottile di genocidio. Ma forse, proprio alla luce della storia raccontata in Opium, in cui l’oppio appare quasi come un elemento alchemico che sfugge al volere di chi cerca di controllarlo, anche i futuri governanti birmani cadranno nella stessa rete.

Per scaricare il rapporto dello Shan Drug Watch clicca qui

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L'ho visto coi miei occhi

“La prima cosa che ho visto sono stati i soldati e i poliziotti che picchiavano la gente con bastoni elettrici…Poi che arrestavamo i dimostranti e li caricavano su un camion”
“Ho visto che sparavano sulla gente”.
“Ho visto sino a trenta persone chiuse in una cella di tre o quattro metri quadrati. Non potevano sedersi e dovevano stare in piedi notte e giorno. Le celle non avevano un water ma i prigionieri non potevano uscire dalle celle. Quindi dovevano evacuare là dentro. Da mangiare gli davano una ciotola di riso al giorno. Molti venivano picchiati”.
Sono stralci di tre delle 203 dichiarazioni di testimoni oculari degli abusi delle forze di sicurezza cinesi e dei gruppi paramilitari (tutti rigorosamente di pura etnia Han) compiuti in Tibet durante le proteste del 2008 e nei due anni seguenti. Sono state raccolte in un rapporto dell’organizzazione indipendente Human Rights Watch.
Il rapporto denuncia le violenze compiute contro donne, ragazzi, monaci e monache che si radunarono a Lhasa nel marzo del 2008 e che restarono in gran parte ignote. Secondo gli autori “le violazioni dei diritti umani sono state molto più gravi di quanto si potesse supporre”. Ma soprattutto
denunciano che “le violenze, le sparizioni, gli incarceramenti e le persecuzioni degli oppositori e delle loro famiglie continuano”.

Leggi il rapporto.
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Aspirasians

Il bambino di strada di Mumbay che scappa dal riformatorio, salva un neonato da un cane che voleva sbranarlo e si mette in cerca della madre. I problemi di una giovane donna giapponese divorziata che torna al suo villaggio con il figlio. Le storie di tre taxisti di Pechino, tra ricordi della rivoluzione culturale e aspirazioni da imprenditori. Lo strano percorso di un palestinese che da lavapiatti in un ristorante giapponese cerca di diventare lottatore di sumo. Come la musica e la danza posso aiutare un gruppo di filippini in campo di rieducazione dalla rabbia. Sono i protagonisti, le vicende dei film presentati a Hong Kong nella rassegna della Asia Society Summer Film Series. Sono le storie degli Aspirasians, coloro che cercano di entrare o vivono ai margini della nuova Asia, quella che dovrebbe controllare il futuro planetario. Ma che per riuscirci dovrà prima fare i conti con centinaia di milioni di Aspirasians.
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Droga in via di sviluppo

L’uso di droghe nei paesi economicamente avanzati è stabile. In aumento nei paesi in via di sviluppo, dove sono sempre più diffuse le metamfetamine. E’ un’informazione del World Drug Report 2010, realizzato dall’UNODC, lo United Nations Office on Drugs and Crime. Il fattore più impressionante che emerge dal rapporto è che la produzione, il traffico e il consumo di droghe sono ormai quasi indistinguibili, sia nelle forme di marketing sia finanziarie, da quelli di altri prodotti di largo consumo. La droga sta diventando una metafora del mercato globale.
L’altro fattore è proprio l’aumento dell’uso di metamfetamine nei paesi in via di sviluppo. Chiunque abbia chiacchierato con un tassista di Jakarta, un muratore di Shanghai, un’operaia nelle fabbriche tessili sparse in tutta l’Asia capisce perfettamente perché. Gli stimolanti sono indispensabili per sostenere i ritmi di lavoro.
Per il download completo del rapporto (PDF:14.6MB) clicca qui.
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I Dannati della Terra

Il Dipartimento di Stato americano ha pubblicato il rapporto 2010 sul traffico di esseri umani.
Secondo il rapporto nel mondo ci sono 12.3 milioni di uomini donne e bambini costretti al lavoro forzato o alla prostituzione, con un guadagno di 32 miliardi di dollari annui per i trafficanti. In molti casi le vittime sono letteralmente rapite o ridotte in schiavitù. Nella maggior parte dei casi sono costretti a vendersi per sfuggire a persecuzioni etniche, guerre, condizioni di vita subumane.
Il che significa che la cifra iniziale andrebbe moltiplicata almeno per 10 per avere un ordine di grandezza più realistico di quanti davvero sono i dannati della terra.
Per il download completo del rapporto (PDF:22MB) clicca qui.



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Buon Compleanno, Signora

Oggi Daw, la Signora, Aung San Suu Kyi leader e simbolo dell’opposizione birmana, compie 65 anni. Negli ultimi venti ne ha trascorsi dodici agli arresti. Lo è tuttora.
A questa splendida Signora, quindi, auguriamo 100 giorni diversi da questo. Che anche per lei si compia il destino di Nelson Mandela. Magari senza dover aspettare tanto quanto il patriarca sudafricano.
Per la ricorrenza la BBC le ha dedicato un documentario tutto da ascoltare: Freedom From Fear, dal titolo del suo libro più famoso (in italiano Liberi dalla paura), nonché di una sua magnifica lettera. Quel libro in Birmania è proibito e può costare molto caro farselo trovare. Ma c’è sempre qualcuno che lo chiede come il dono più prezioso.
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Per ascoltare il documentario della BBC clicca qui.
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La strage degli Innocenti

In Birmania un terzo delle IDP, le Internally Displaced Persons, sono bambini. E’ il modo migliore per distruggere il futuro delle etnie che si oppongono al governo centrale. Un progetto in cui, oltre all’identità e all’infanzia, spesso è negata la vita. I bambini sono sfruttati nei lavori forzati, violentati. Anche torturati. E’ la sintesi di un rapporto realizzato dai Free Burma Rangers, organizzazione umanitaria multietnica che opera in territorio birmano. Il rapporto è stato presentato a Bangkok nei giorni delle manifestazioni. Scarsa l’attenzione dei media. «Non so i media, non so niente di tutto questo. So quanto si soffre e vado avanti” dice Monkey, un Free Burma Ranger di etnia Karen.

Per leggere il rapporto clicca qui.
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The Utility of Assassination

E’ utile l’assassinio dei nemici da parte dei servizi di sicurezza? La risposta nell’articolo pubblicato sul sito di Stratfor, società di analisi e informazioni geopolitiche. L’articolo, con la sua risposta, può essere discutibile. Ma è un esempio di come trattare con freddezza, senza essere obnubilati dal politicamente corretto, argomenti dichiarati tabù.

Per leggere l’articolo clicca qui
This report is republished with permission of STRATFOR

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Camminando tra coltelli affilati

“Essere un capo villaggio è come camminare tra coltelli affilati” recita il titolo di un rapporto della Karen Women Organisation. Perché quel capo è una donna. Dal 1980 nei villaggi di etnia Karen disseminati nella Birmania orientale, il capo villaggio è spesso scelto tra le donne. Si sperava che i soldati birmani non le avrebbero eliminate come facevano con gli uomini. Così non è accaduto. Anzi. Secondo il rapporto le donne sono state crocifisse, torturate, bruciate vive, stuprate in gruppo, ridotte in schiavitù. Il loro è un martirio ignoto.

Per il download del rapporto clicca qui.
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Minority Report

E’ stato presentato a Bangkok il rapporto di Amnesty International “The Repression of ethnic minority activist in Myanmar”. Sono 58 pagine frutto di due anni di lavoro. E’ l’ennesima lista di orrori, stupri, torture, lavori forzati, crimini commessi dallo State Peace and Development Council (SPDC), la giunta che governa la Birmania.
Nello stesso giorno, mentre stava arrivando in Birmania l’inviato delle Nazioni Unite per verificare eventuali progressi nel rispetto dei diritti umani, un tribunale militare ha condannato ai lavori forzati quattro donne. Erano state arrestate lo scorso ottobre con l’accusa di aver consegnato ai monaci libelli sovversivi.
In realtà, negli ultimi tempi, il regime sta applicando quella che un dissidente rifugiato a Bangkok definisce “l’offensiva dello charme”. Ha rilasciato l’ultraottantenne Tin Oo, uno dei maggiori esponenti dell’opposizione, ha dichiarato che libererà Aung San Suu Kyi e le ha concesso di incontrare alcuni dirigenti del suo partito, la National League for Democracy (NLD).
L’obiettivo è conquistare una certa legittimità internazionale e dimostrare che le prossime elezioni (indette per quest’anno senza precisare la data) non saranno una farsa bensì un passo sulla strada per la democrazia (seppure “controllata”, secondo il principio vigente in tutti gli stati del sud-est asiatico). Una strada che molti giovani comandanti militari reputano ineluttabile, non foss’altro per allargare il loro giro d’affari e non dipendere totalmente dal controllo cinese.
In questo scenario, come ha dichiarato il rappresentante di Amnesty Benjamin Zawacki, tutta l’attenzione sarà focalizzata sulla Signora Suu Kyi e la National League for Democracy, dimenticando le minoranze (il 40% della popolazione), che pure “hanno giocato un ruolo importante nel movimento d’opposizione”.
La giunta militare, invece, afferma che quelle contro le minoranze sono operazioni militari contro gruppi separatisti e terroristi. Un problema reale, sussurrato anche da alcuni esponenti dell’opposizione. Nel momento in cui in Birmania s’indebolisse il regime centrale, si correrebbe il rischio di una guerra tra vari Signori della Guerra e della Droga. Il che non giustifica la politica della giunta, che opera nella presunzione di ciò che potrebbe accadere per stabilire una vera e propria etnocrazia.
Il rapporto di Amnesty diviene davvero un Minority Report, come nel film di Steven Spielberg. In un futuro dove il crimine viene combattuto prima che avvenga sulla base di percezioni extrasensoriali, c’è un “rapporto di minoranza” che le interpretata in maniera diversa. C’è sempre qualcuno, come Amnesty, che ha e ci dà una visione che pone l’essere umano al di sopra di ogni sospetto.

Per il download del documento di Amnesty clicca qui.

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Che ti possano...

«Se non dici la verità possano strangolarti gli amuleti attorno al collo, possa tu venire colpito da un proiettile, investito da un’auto, fulminato dall’elettricità…Possano essere assassinati tutti i membri della tua famiglia, possano morire in un disastro aereo”. Così, a quanto dicono, il primo ministro cambogiano Hun Sen avrebbe maledetto il premier thailandese Abhisit Vejjajiva. E’ accaduto dopo l’ennesimo scontro alla fontiera Thai-Cambogiana attorno al tempio di Preah Vihear, da secoli oggetto di culto e disputa per entrambi i paesi. Abhisit ha replicato con la flemma che gli deriva da una rigorosa educazione compiuta tra Eton e Oxford. Secondo alcuni, tuttavia, la sua sicurezza deriva da ben altro: il Luangpor Thuad M16.
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Che non è, come si potrebbe supporre dal nome, una versione thai del fucile d’assalto americano. Bensì un amuleto che dall’arma prende parte del nome (si racconta che un camionista che lo indossava non sia stato scalfito da una raffica di M16). Lo ha mostrato lo stesso Abhisit durante una conferenza stampa. A chi gli chiedeva se indossasse un giubbotto antiproiettile (in questo caso per proteggersi da attentati di oppositori locali) ha risposto aprendo la camicia e mostrando che il suo “scudo magico”, ossia dieci amuleti attorno al collo (di cui quello era il pezzo più pregiato). Il che spiega anche la prima delle maledizioni lanciate da Hun Sen.
Tutto ciò può far sorridere. Ma la magia, gli Spiriti, l’astrologia sono un elemento fondamentale per comprendere la politica asiatica. Il fenomeno in Thailandia è descritto in un breve saggio di Pasuk Phongpaichit e Chris Baker, due dei maggiori esperti di cultura thai contemporanea: “The spirits, the stars, and Thai politics”.
In questa parte di mondo, dove la reincarnazione è uno dei principi cardine delle religioni più diffuse (hinduismo e buddhismo) e dove sono ancora forti i culti animistici e degli antenati (collettivi o familiari), l’idea di una dimensione popolata da Spiriti transeunti, Entità immanenti la natura, qualche cosa che manifesti il sacro (le ierofanie del Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade) diviene reale.
Come non si può più parlare di religione quale sovrastruttura, altrettanto non si può definire la comprensione di altre religioni in termini di relativismo culturale.

Per scaricare il documento “The spirits, the stars, and Thai politics” clicca qui.

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Buone e cattive. Non solo ragazze

Sul sito-blog Bangkok Diaries è stato pubblicato un lungo post - che ha innescato un interessante dibattito - sul comportamento sessuale delle donne thai. E’ un vero e proprio micro-saggio di antropologia della surmodernità, come fenomeno connesso allo sviluppo delle società complesse e alla sempre più diffusa globalizzazione.
In quanto tale va ben oltre le generalizzazioni e gli stereotipi ormai sovrabbondanti e retorici sul sesso in Thailandia, che nell’immaginario erotico occidentale appare popolata da poche “brave” ragazze e una miriade di “cattive” . Queste ultime ineluttabilmente corrotte dalla presenza dei farang, gli stranieri. In questo caso, invece, il fenomeno è analizzato oltre il manicheismo, nella sua complessità, nelle similitudini, nei contrasti e nelle interconnessioni tra cultura orientale (e buddhista) e quella occidentale. Senza giudizi morali e sociali.
Unica, vera pecca del post: è anonimo. Confermando, anche in questo caso, il tabù per cui di questo argomento non è lecito scrivere (parlarne è inevitabile, data la malsana curiosità di qualunque maschio occidentale cui si nomini la Thailandia).
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Il grafico del post: esempio di supermoderna complessità.
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E la pillola va giù

Il sequestro di metamfetamine in quindici paesi del Sud-est asiatico è passato dai 25 milioni di pillole del 2007 ai 31 dello scorso anno. E’ uno dei dati del rapporto presentato a Bangkok dall’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) sulla situazione riguardante gli stimolanti tipo amfetamine e altre droghe in Asia orientale e Sud-est asiatico.
Non è una buona notizia: significa che la disponibilità di metamfetamine in quest’area, dove vive il 28% della popolazione planetaria, sta crescendo in modo proporzionale al suo tasso di sviluppo, uno dei più alti al mondo. Grazie alle nuove infrastrutture i trafficanti possono espandere più facilmente il mercato, e la criminalità organizzata intende stabilire in questa zona la propria base operativa.
Altra notizia inquietante è la crescente diffusione delle metamfetamine in cristalli, molto più potente. Poiché assunta anche per iniezione, può provocare un ulteriore incremento anche dell’Aids.
Non ci si limita ad avvelenare i consumatori attuali. Gli impianti di raffinazione sempre più grandi sparsi nell’area stanno provocando danni ambientali che potranno avere conseguenze sulle generazioni future. La Next Asia rischia di essere popolata da zombi.

Per scaricare il rapporto completo clicca qui.

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Same Same

In Thailandia c’è un’espressione diffusa per indicare le somiglianze con piccole differenze (o viceversa): “same same but different”. Si può applicare a molte delle caratteristiche thai e italiane. Oggi ne ho scoperta una nuova: la corruzione. Dalla Thailandia ci separano solo 21 posti (su 180) nell’annuale classifica - la Corruption Perceptions Index - stilata da Transparency International. L’Italia è al 63° e la Thailandia all’84° posto. Entrambe scese in classifica dallo scorso anno: rispettivamente dal 55° e dall’80°.
Se continua così prima o poi saremo solo same same, senza different (per adesso, come si nota nella carta, ci separa una sottile sfumatura di blu).

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L'Ombra del Guerriero

Sak Yant è il tatuaggio magico thailandese e khmer. Sak significa tatuaggio, Yant deriva da Yantra, termine sanscrito che indica i simboli utilizzati come supporto nella concentrazione o per favorire la meditazione. Lo Sak Yant è composto da segni e disegni che rappresentano preghiere buddhiste, formule magiche, divinità e demoni tutelari. Da centinaia d’anni i guerrieri del sud-est asiatico affidano il proprio corpo alla protezione degli Sak Yat che lo ricoprono. Un tempo li chiamavano Taharn Phee, soldati fantasma, come se i tatuaggi li rendessero invisibili ai colpi dei nemici.
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Un Pad Ti, Sak Yant che offre protezione da tutte le direzioni.
Ancor oggi i soldati thai e khmer si affidano alla magia del Sak Yant. Come fanno i Nak Muay, i combattenti della tradizionale e violenta Muay Thai, l'arte marziale thai. E come fanno le ragazze dei bordelli, che prediligono il disegno Jingiok, della lucertola, simbolo di attrazione per gli altri e "compassione" (nel senso di comprensione, partecipazione, assenza di giudizio) da parte degli altri.
Il tatuaggio che forse esprime meglio l'antico spirito del Sak Yant è disegnato con l'olio. «Non si vede che c'è, ma tu lo sai e gli Spiriti lo vedono» dice un vecchio monaco del Wat Bang Phra, un tempio famoso per i suoi riti magici e i suoi Ajarn, i maestri, tatuatori. Il Sak Yant invisibile è un simbolo potente del concetto di doppio, di ombra, di quello che per i giapponesi è il kagemusha. Induce a meditare sul senso dell'identità. E' anche uno spunto di riflessione per un mondo in cui il tatuaggio è divenuto una moda e un modo di apparire anziché essere. Senza sofferenza. Al contrario del Sak Yant.
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Un monaco pratica il Sak Yant nel Wat Bang Phra, divenuto famoso per gli incantesimi del vecchio abate Luang Pho Pern.
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Palermo sul Pacifico

La guerra al crimine globale può essere vinta solo con il Palermo Protocol.
La connessione tra mafie mondiali e la città siciliana può suonare fastidiosa. Ma questa volta è positiva: si riferisce alla “Convention against Transnational Organised Crime”, siglata a Palermo nel 2000 e finalizzata a elaborare una strategia globale contro il crimine organizzato.
Nonostante sia stato firmato da 147 paesi, in molte zone del mondo il Palermo Protocol non viene messo in pratica. La situazione è stata analizzata in un recente rapporto dell’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) focalizzato sull’area Asia-Pacifico: “Palermo on the Pacific Rim: Organised Crime Offences in the Asia Pacific Region”. In quest’area I profitti generati dal traffico di droghe, di armi, di esseri umani, di immigrati clandestini, di fauna, flora e risorse naturali, di opere d’arte e antichità, di veicoli rubati e dall’usura, il gioco d’azzardo e la prostituzione, superano il prodotto interno lordo di molte nazioni. Forte di un bilancio di miliardi di dollari, avverte il rapporto dell’UNODC, intrecciato alla corruzione, al riciclaggio di denaro, all’estorsione, il crimine organizzato è in grado di minacciare e i minare i governi locali, influenzare le politiche nazionali, mettere a rischio i diritti umani basilari.
Per l’ennesima volta dovremmo riflettere sui reali problemi della globalizzazione. Troppo spesso l’analizziamo come fenomeno monodirezionale che dall’Occidente “contagia” il resto del mondo. E non ci accorgiamo che il resto del mondo, spesso fuori controllo, sta esportando un nuovo modello: quello degli economic gangsters.

Per il download del rapporto clicca qui.
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La spia che non mentiva

Qual è la verità? Chi è che dice davvero la verità? Per interrogarsi su tali questioni val la pena leggere The Spy Who Loved Us: The Vietnam War and Pham Xuan An's Dangerous Game, di Thomas A. Bass. E’ la storia di Phan Xuan An, corrispondente di Time durante la guerra del Vietnam, considerato uno dei più acuti analisti del conflitto, confidente degli inviati a Saigon, consulente dei generali e politici sudvietnamiti. E, soprattutto, agente del governo nordvietnamita. Phan Xuan An non fu mai scoperto e la sua vera identità fu svelata solo dopo molti anni. Ma quelle domande non trovano risposta. Perché, a quanto disse, lui non aveva mai mentito a nessuno: le analisi politiche che dava a Ho Chi Minh erano le stesse che scriveva per Time. La sua vita era una bugia, ma lui diceva la verità.
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Una notizia piccola piccola

Un soldato birmano ha violentato e ucciso una bambina di 7 anni. Il soldato non è stato punito. I genitori della bambina sono stati minacciati di punizioni se non avessero accettato un piccolo compenso per la perdita.
E’ accaduto nel dicembre 2008 nel villaggio di Ma Oo Bin, popolato dalla minoranza Karen.
Questa piccola storia è stata ricordata alla presentazione del report sui “Crimini in Birmania” della
International Human Rights Clinic della Harvard Law School.
Secondo il rapporto, i documenti delle Nazioni Unite sulla Birmania costituiscono base giuridica per procedere a ulteriori indagini in merito a crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Il documento esamina quattro violazioni del corpus internazionale: violenza sessuale, sfollamento forzato, tortura e uccisioni extragiudiziarie.

Clicca qui per scaricare il pdf del rapporto
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Storia di Phy

Le chiedevano se era una spia. Se aveva portato armi ai ribelli. Se aveva avuto l’incarico di parlare di Gesù. Ogni volta che rispondeva di no la picchiavano di più. L’hanno picchiata e stuprata per giorni. Phy è una ragazza di etnia Hmong, una delle minoranze etniche del Laos. Come migliaia di altri del suo popolo si era rifugiata in Thailandia. Ma è stata rimpatriata in Laos. Alla fine è riuscita a fuggire. È tornata nell’unico posto dove poteva sperare di trovare aiuto: il campo profughi. La storia di Phy appare nell’appendice del rapporto presentato da Medici Senza Frontiere, sotto il titolo “I pericoli di essere rimandati indietro”. Dal 2005 MSF è presente nel campo rifugiati Hmong nella provincia di Petchabun, in Thailandia. Ma oggi ha annunciato che sarà costretta a rinunciare alla sua missione se non cesserà la politica di deportazione dei profughi. I Hmong scontano un antico peccato. Negli anni Sessanta e Settanta combatterono contro i comunisti del Pathet Lao e l’esercito nordvietnamita. Una guerra segreta organizzata dalla Cia, finanziata col traffico d’oppio e costata quasi settantamila vite Hmong, guerriglieri e civili. Nel 1975 il loro comandante, il generale Vang Pao, si rifugiò negli Stati Uniti. Alcuni dei suoi fedeli riuscirono a seguirlo. Migliaia fuggirono in Thailandia. Altre migliaia restarono alla macchia portando con sé le famiglie. Di questi ultimi ne sono sopravvissuti circa 1600, nascosti nella giungla del Laos centrale. Vang Pao ha continuato a finanziarli e rifornirli d’armi, sacrificandoli al sogno di una rivolta nel paese. Finché non è stato arrestato in California con l’accusa di voler rovesciare il governo lao. Poco dopo il governo Thailandese ha intensificato il rimpatrio forzato dei rifugiati. I Hmong sono stati sacrificati dai loro ex alleati: vogliono ristabilire rapporti economici e strategici con i paesi con cui erano in guerra quarant’anni fa. Vite di scambio negli equilibri planetari.

La storia degli ultimi Hmong nella giungla Lao in un reportage di Al Jazeera


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Processi

«La nozione di libertà individuale, di leggi, di tribunali era abolita». Lo ha dichiarato Kaing Guek Eav, alias Duch, il responsabile del centro di detenzione e tortura dei khmer rossi, che tra il 1975 e il 1979 materializzarono in Cambogia l’inferno terrestre. P1020050
Kaing Guek Eav, alias Duch, durante il processo
Dopo trent’anni Duch è il primo dei khmer rossi a essere giudicato da un tribunale internazionale per crimini contro l’umanità. Il processo, ripreso oggi a Phnom Penh, è molto discusso. Soprattutto perché esclude dal giudizio gli anni successivi al 1979, quando la Cambogia fu invasa dai Vietnamiti. Dopo di allora e sino al 1998, con la resa dell’ultimo bastione dei khmer rouge, i crimini contro l’umanità continuarono. Ma almeno questo processo c’è, e può essere un primo passo per altri giudizi storici. Quasi nello stesso momento in cui Duch rispondeva alla corte di Phnom Penh, a Rangoon iniziava il processo di Aung San Suu Kyi. Questo, invece, senza un perché. Se non la paranoia dei generali della giunta militare birmana. I mostri continuano a riprodursi e la storia si ripete. Trent’anni fa, per la logica della guerra fredda, l’Occidente continuò a ignorare i crimini dei khmer rossi. Oggi, in nome dei nuovi equilibri planetari, si limita a protestare contro l’arresto di San Suu Kyi e ignora le altre migliaia di detenuti politici. Forse tra trent’anni assisteremo a un processo internazionale in cui qualche esponente della giunta dichiarerà, come Dutch, che la libertà era abolita. Ma probabilmente nessuno comparirà alla sbarra come complice.
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Urla nel silenzio

Aung San Suu Kyi, in un certo senso, è quella che sta meglio. Anche se ha trascorso 13 degli ultimi 19 anni agli arresti domiciliari. Anche se soffre di disidratazione e non riesce più a mangiare. Anche se non può essere visitata dal suo medico personale, che è stato arrestato la sera del 7 maggio. Lei sta meglio degli oltre cento attivisti politici birmani in gravissime condizioni di salute rinchiusi in prigioni e campi di lavoro nei più remoti e segreti angoli della Birmania. L’ultimo rapporto della Assistance Association for Political Prisoners li definisce “Silent killing fields”.
Clicca
qui per scaricare il pdf del rapporto
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Cuore di Tenebra

Uno dei più attivi rappresentanti dell’opposizione birmana mi inoltra un comunicato emesso il 9 aprile da un gruppo stanziato nello stato Shan, l’estremo oriente della Birmania. Denuncia i rapidi, distruttivi cambiamenti che si stanno verificando in quella remota regione. Lo riporto integralmente. E’ illuminante. Aiuta a capire quanto le regole morali sono relative in quel cuore di tenebra.

Demand for rubber in China is spurring a scramble to plant trees by the Burma Army, ceasefire groups, and militias. Under the banner of opium eradication, the Yunnan Hongyu Group from China is also establishing rubber plantations by employing forced labor after entire villages were forcibly relocated. However the bulletin confirms UN data that opium cultivation is increasing in Shan State.
“Rubber is being planted on every slope but farmers don’t know what they’ll eat” said Japhet Jakui, the director of the Lahu National Development Organization which authored the bulletin.
Wildlife trafficking is increasing to China and is now operating through Keng Larb, a new hub of trade on the Mekong River. Local Lahu villagers describe a dramatic decrease in the populations of elephants and tigers and the disappearance of gibbons. One hunter interviewed for the bulletin received US$20,000 for a single tiger carcass and skin.
China continues to construct a series of giant dams on the mainstream Mekong while downstream communities anxiously question what impacts will befall them. Unprecedented floods in August 2008 damaged thousands of acres of paddy farms.

Il rapporto completo è visibile sul sito Burma Rivers Network.
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Una Land Cruiser bianca

“In sud-est asiatico, per capire qual è il miglior ristorante o albergo della zona c’è un sistema semplicissimo: se davanti ci sono parcheggiate le Land Cruiser bianche di qualche organizzazione umanitaria, allora è il posto giusto”. E’ un consiglio ai viaggiatori scritto qualche tempo fa. Tanto politicamente scorretto quanto vero. Girando per l’Asia questa realtà è evidente. Spesso in modo offensivo.
Altrettanto vero e forse ancor più politicamente scorretto – dipende dai punti di vista - dire che ci sono uomini che compensano questo ennesimo insulto alla disperazione.
E’ stato il caso del dottor Carlo Urbani, che ha “scoperto” la Sars e il 29 marzo 2003 è stato ucciso da quella malattia. Morendo è entrato nell’affollatissimo pantheon degli improvvisi Santi Nazionali. Poi, con altrettanta rapidità, ce ne siamo scordati.
Come lui, in giro per il mondo, ci sono molti altri uomini e donne. Non hanno la vocazione al martirio, non vogliono diventare Santi. Vogliono solo fare il proprio lavoro: aiutare chi ne ha bisogno. Cerchiamo di ricordarli da vivi.

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Attenzione: pirati

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La Steadfast è una nave cisterna di 149 metri e 10734 tonnellate di stazza, battente bandiera del Commonwealth of Dominica, con un equipaggio di 25 uomini. E’ partita il 18 dicembre dal porto di Palembang, costa orientale di Sumatra, in Indonesia, carica di olio vegetale. Sarebbe dovuta arrivare a Singapore il giorno dopo. Ma il 19 dicembre, alle 05.30 UTC (Tempo Coordinato Universale), si trova in tutt’altra posizione: a 2.20 N e 106.41 E, al centro del vasto tratto di mare tra la Malesia e il Borneo. Il 21 dicembre il Piracy Reporting Centre di Kuala Lumpur emette un avviso segnalando il sequestro della Steadfast da parte di una banda di pirati e la ricompensa di 100.000 dollari per chi ne dia informazioni. Intanto la rotta della nave è costantemente seguita grazie ai segnali del trasmettitore di bordo. Dopo una serie di intercettazioni a vuoto, la Steafdfast è intercettata a sud-est della costa vietnamita dalla marina militare indonesiana. I pirati riescono a fuggire. Nave, carico ed equipaggio sono salvi.
E’ una storia del 2005. Proprio per questo Mr. Chong può raccontarla. Mr. Chong è il responsabile del Piracy Reporting Centre dell’International Maritime Bureau. Da allora storie così se ne sono verificate a centinaia. E le ricerche sono diventate più difficili. I pirati adesso disattivano i trasmettitori.
Nel 2008 gli episodi di pirateria sono stati 293, le navi sequestrate 49, i morti tra gli equipaggi 11, i dispersi, probabilmente morti, 21. Una volta i morti erano di più, dice Mr. Chong. Ora lasciano gli equipaggi su isole deserte. Solo perché con i morti aumenta la pressione internazionale. In questa contabilità rientra il prezzo del greggio: quando scende aumentano gli attacchi. Ci sono meno controlli in mare. E’ come nelle aree residenziali: in quelle di lusso c’è più polizia. Senza contare, dice Mr. Chong, che oltre il 50% degli attacchi non è segnalato. Se sono riusciti a eluderli, i capitani vogliono evitare ritardi e controlli. In caso di sequestro, spesso l’armatore vuole negoziare senza interferenze.
Secondo Mr. Chong, sequestrare una nave è facile. Bastano le armi: si affianca lo scafo, si lanciano i rampini, ci si arrampica sulla murata, si sale in plancia. I mezzi sono diversi, ma l’arrembaggio è quello dei vecchi tempi. Cambia il modo di agire dei pirati. In Asia, quando sequestrano una nave, molto spesso la trasformano. Anche questo non è così difficile, specie se la utilizzano in zone remote come le coste del Borneo. In Africa, invece, non sono così “precisi” dice Mr. Chong. Lascia capire che i pirati somali sono i più pericolosi e i meno controllati.
Mentre parliamo arriva la segnalazione di una nave che ha avvistato un motoscafo con uomini armati a bordo.

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Rapporto sulla tratta degli schiavi

Le donne sono tra le più coinvolte nel traffico di esseri umani. Come trafficanti. Questo il dato più sorprendente del Global Report on Trafficking in Persons presentato nei giorni scorsi dallo United Nations Office of Drugs and Crime (UNODC). Secondo un funzionario dell’UNODC le donne possono gestire meglio la merce principale di questo traffico: altre donne, vendute per il sesso. Ben più preziose degli uomini, impiegati come forza lavoro.
Il rapporto sottolinea che, nonostante il considerevole aumento degli arresti e la sempre maggiore repressione, il numero dei trafficanti impuniti è “immenso”.
“Il traffico di esseri umani resta uno dei business a più alto profitto e minor rischio” ha detto Gary Lewis, rappresentante dell’UNODC per l’Asia Orientale e il Pacifico. Per combatterlo bisogna prendere coscienza del problema. A cominciare dall’uso dei termini. “Traffico di esseri umani” può rivelarsi equivoco. Quello che lo descrive meglio è schiavitù.

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Il kalashnikov: madeleine o Coca Cola?

“L’odore dei fucili, dovendo pulirli, l’odore dell’olio dei kalashnikov è come quello di cui si parla in Apocalypse now a proposito dell’odore del napalm al mattino. Se non siete stati in guerra non potete capire quello che voglio dire. Non avete mai annusato quell’odore…”. Parola di Nassim Nicholas Taleb, operatore di borsa e filosofo, autore del best seller Il Cigno nero, ossia “come l’improbabile governa la nostra vita”. Quel ricordo dell’odore dell’olio dei kalashnikov fa parte di un’altra vita, di quando era un giovane miliziano cristiano nella guerra in Libano. E’ la sua madeleine. Per il reporter Michael Hodges il kalashnikov è come la Coca Cola. Lo definisce così, “la Coca Cola delle armi” nel libro AK 47, the story of a gun. E’ un marchio globale e come tale “è privo di morale o regola etica, il puro simbolo di una scelta di vita”. Alla fine il kalashnicov è una metafora dei punti di vista: “the gun is who I am”, dicono in Iraq.

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